Poesia. «Sbagliando si vive. Parola di Wisława Szymborska»
29 Settembre 2024A lezione dall’uomo primitivo
29 Settembre 2024Da un po’ di tempo, trent’anni o poco più, le città del mondo stanno cambiando: e diventano tutte uguali. Stesso centro storico con ristorazione alla buona e negozietti di souvenir per frotte ingorde di turisti, un paio di monumenti-logo per attirarli con la mediazione di riviste patinate e magazine in cerca di mal celati stereotipi, spostamenti di massa della popolazione nelle periferie dotate magari di qualche servizio di prima necessità, grandi mall ai bordi delle tangenziali, e tanto sport locale che, fungendo da novello oppio dei popoli, mira alla costituzione di identità urbane tanto fluide quanto magnificate nei media – di massa e no. È la gentrificazione, cattiva coscienza collettiva che tutto rimacina e tutto ripropone, con l’ausilio armato di una turistificazione che, allietando compagnie aeree scalcagnate e affittacamere improvvisati, desertifica il territorio incupendo i suoi abitanti…
Questa, almeno, la prima impressione generale, che condividono con sentimenti opposti cittadini e viaggiatori, facendo saltare l’ambigua opposizione fra locale e globale, rurale e urbano, individuo e società. Chi della faccenda si occupa da vicino, e giustamente, prende tuttavia le distanze da questo giudizio, considerandolo tanto superficiale quanto affrettato. E necessitando per forza di cose di un supplemento di indagine e di riflessione, con l’aiuto, se del caso, di adeguate narrazioni, da un lato, e di azioni amministrative in prima persona, dall’altro. Così, urbanisti e pianificatori territoriali – in barba alle libidinose speculazioni edilizie, alle semplificazioni mediatiche e alle conseguenti lamentele diffuse (“tourists go home!”) – non possono non prendere sul serio l’idea e la prassi della rinascita urbana, facendosi promotori di una progettazione efficace e allungando lo sguardo su tutti quei casi concreti che, in un modo come in un altro, tale rigenerazione hanno già attuato o sono sul punto di farlo. Narrando così i successi, o anche le sconfitte, di quelle città – e sono tante – che, come dire, alla rigenerazione credono veramente, hanno creduto e intendono continuare a farlo.
Va letto in questa chiave il nuovo libro di Maurizio Carta (raro caso di urbanista che mette quotidianamente in pratica – sul piano politico e amministrativo – quel che insegna in università), il cui titolo, producendo un ibrido testuale, è già un programma d’azione e al tempo stesso un manifesto letterario. Romanzo urbanistico (Sellerio, pp. 512, € 22) chiede innanzitutto al suo lettore di interrogarsi sulle ragioni profonde di questa intitolazione. Che cos’è un romanzo urbanistico? Non certo un romanzo scritto da un urbanista o, cambiando di livello, un romanzo che racconta di un urbanista. Il libro di Maurizio Carta, in parte, è già queste due cose, ma, sia negli intenti sia nei risultati, va ben oltre una tale immediata chiave di lettura. Il sottotitolo del bel volume, Storie dalle città del mondo, apre una terza pista: ed ecco tante piccole narrazioni di ben 42 città di varia natura e dimensione (statunitensi: New York, New Orleans, Detroit, Boston, Chicago, Nashville, Paducah; francesi: Parigi, Marsiglia, Nantes, Lione, Brest, Bordeaux; brasiliane: San Paolo, Porto Alegre; cinesi: Pechino, Hangzhou; inglesi: Londra, Liverpool, Portsmouth, Newcastle; tedesche: Berlino, Amburgo, Hannover; spagnole: Barcellona, Bilbao, Valencia, Siviglia; africane: Il Cairo, Casablanca, Marrakesh… e via dicendo), altrettanti racconti di, appunto, rigenerazione urbana, riuscita o meno. Ma, ancora una volta, non basta: se si trattasse di questo, non avremmo un romanzo unitario ma una specie di novelliere, una raccolta di singoli racconti senza nemmeno una cornice che li tenga insieme.
Ma la cornice c’è, eccome, e forse ben più di una cornice, trattandosi di una specie di narrazione sottotraccia, uno schema formale unitario che, tenendo insieme le 42 storie, ne genera una nuova, e assai più importante: sia dal punto di vista letterario che urbanistico. L’idea stessa di una rigenerazione, difatti, è già di per sé un canovaccio di romanzo, ancor di più se urbana, coinvolgendo cioè, come è d’obbligo nei romanzi, uomini e cose, soggetti umani di vario tipo ma anche attori non umani, e dunque spazi, strade, piazze, edifici, templi e chiese, mezzi di trasporto, incluse le leggende e le mitologie, i film e le canzoni, la gastronomia, l’immaginario tutto. Una città, ripete Carta con una certa insistenza, è una macchina non banale, non un luogo geografico ma una vita vissuta collettivamente, una cittadinanza, anzi una concittadinanza: somigliando in questo, per riprendere la celebre distinzione di Emile Benveniste, più alla civitas latina che non alla polis greca. In questo senso rigenerare una città significa, in primo luogo, coinvolgere sempre e comunque un collettivo (dove convivono istanze e valori anche differenti, dunque potenzialmente in conflitto) e, in secondo luogo, seguire una serie di momenti canonici in cui la transizione, ovviamente, non è uno stato ma un processo, una trasformazione orientata, uno spostamento di senso, un tentativo di trasformazione del valore.
Carta usa a questo proposito l’idea di struttura narrativa proposta dallo sceneggiatore americano Christopher Vogler, a sua volta assai simile alla morfologia della fiaba di Propp e della narratologia successiva, secondo cui l’eroe, chiunque esso sia, attraversa una serie di prove per compiere il suo destino, ivi compreso l’incontro con una serie di altri personaggi che provano a impedirglielo. Così, per esserci rigenerazione, dev’esserci stata prima una degenerazione, un problema, un decadimento, quello che Propp chiamava un danneggiamento. Identificabile con il declino delle città causato dall’uso predatorio delle risorse pubbliche da parte di alcuni poteri forti; i quali, dopo aver riempito lo spazio urbano di fabbriche, le hanno poi delocalizzate creando grandi zone dove dominano l’incuria e l’abbandono, i cosiddetti terrains vagues. È accaduto a Detroit, a Londra, a Parigi, un po’ dappertutto. È a questo punto che prende avvio il viaggio dell’eroe, identificabile con tutta una serie di soggetti sociali (immigrati, disoccupati, artisti, soggetti fragili, imprenditori illuminati, amministratori visionari…) che hanno provato a risemantizzare i luoghi abbandonati, generando altre forme di valorizzazione del territorio e, dunque, della vita pubblica. A questo punto entrano in gioco le varie esperienze dell’eroe. Tali personaggi hanno avuto infatti enormi difficoltà, grandi resistenze, nonché una serie di tentativi di pura cosmesi urbana senza reali cambiamenti. Così ogni città ha proposto il suo modello di rigenerazione, il suo piano strategico di rifondazione del valore, andando a ripensare interi spazi, come per esempio Red Hook, quartiere popolare di New York colpito dall’uragano Sandy nell’ottobre 2012, il quale, più che ricostruirsi come prima, ha ripensato alla radice il suo stesso senso sociale. Oppure, nella medesima città, la celeberrima High Lane, sorta dove prima stavano i magazzini dei macelli pubblici, che ha completamente modificato Soho e Chelsea, portando fra l’altro a una fortissima rivalutazione degli appartamenti della zona.
Quel che importa, per Carta, non è però l’happy end, per definizione impossibile data la complessità dei processi in gioco, ma quelli che chiama indizi di futuro, l’individuazione cioè di quei segnali che l’urbanista come l’amministratore devono saper intercettare per progettare e promuovere un cambiamento urbano non gattopardesco. Così a Parigi, per dirne una, stanno attuando l’idea della città in quindici minuti, con tutto a disposizione in ogni quartiere (da cui l’idea, per esempio, di costruire una scuola ogni trecento metri), dunque senza più bisogno di lunghi attraversamenti per raggiungere uffici, negozi o servizi d’ogni specie.
E qui si inserisce, a parte la conoscenza puntuale dei territori urbani e dei progetti che volta per volta hanno provato a rifondarli, la soggettività dell’autore del libro e quello che potremmo chiamare il suo personale metodo di indagine, assolutamente non convenzionale, tanto inconsueto quanto geniale: la corsa all’alba per la città che, in modo diverso caso per caso, sta per risvegliarsi. Così, al flâneur di Benjamin, all’automobilista di Kevin Lynch e al podista di Paul Auster si sostituisce il runner, figura che attiva tutta una batteria di sensazioni, percezioni, intuizioni e cognizioni le quali provano a catturare frammenti di senso delle città in quel preciso momento in cui essa rinasce ciclicamente, in cui si riaccende quotidianamente, in cui, potremmo dire, si rigenera da sé stessa. Le parti più belle del libro sono senz’altro i racconti di queste corse mattutine tra i vicoli di Marrakech, il lungosenna parigino, le vie tortuose di Mosca, i ruderi di Detroit e così via. Il romanzo urbanistico trova qui i suoi momenti migliori, più avventurosi, più emozionanti. Di modo che al pensiero strategico si intreccia la narrazione delle passioni e delle sensazioni del viaggio dell’eroe, perennemente in movimento, dove la corsa si fa metafora di una indagine curiosa, appassionata, senza sosta.
Stupisce, o forse no, l’assenza nel libro di Maurizio Carta di città italiane (a parte il piccolo centro di Favara, nell’agrigentino, protagonista di una recente rinascita urbana di grande interesse). Il fatto è che, nota l’autore, “non abbiamo una strategia diplomatica ed economica come paese nel suo complesso”. Figuriamoci come singola città. E qui la passione predominante che viene fuori non è più, come ci aspetteremmo, l’amore per le città e i loro abitanti ma, molto diversamente, la rabbia: “Poi c’è la rabbia di un urbanista che vede progetti ben fatti, luoghi rigenerati, metabolismi riattivati, comunità riconnesse anche in città che provengono da disastri ambientali, da catastrofi economiche, da declini industriali, da guerre civili o che vivono sotto regimi autoritari. La rabbia che tutto questo non si possa fare in Italia, in Sicilia, a Palermo”. Ma, ed ecco un altro personale metodo urbanistico: “la rabbia serve”.