«Avevamo quasi fatto un accordo con la Cina (nel 2020, ndr), grazie al quale avremmo aperto la Cina», ha raccontato lunedì Donald Trump ai giornalisti, prima di lanciare a Pechino un ultimatum (scaduto alle 18 italiane di martedì): ritirare i controdazi del 34 per cento sulle merci importate dagli Stati Uniti, o vedersi appioppare ai propri prodotti ulteriori tariffe del 50 per cento, un muro a quel punto invalicabile negli States per il made in China, gravato da dazi del 115 per cento.
«Se gli Stati Uniti ignorano gli interessi di entrambi i paesi e della comunità internazionale e insistono nell’iniziare una guerra commerciale, la Cina combatterà fino alla fine», ha risposto il ministero del commercio di Pechino. Intanto mercoledì 9 aprile entrano in vigore le tariffs del 34 per cento negli Usa e giovedì quelle di uguale entità in Cina. Sembra così prendere corpo quel decoupling a cui solo pochi economisti hanno creduto.
Da un lato Pechino vorrebbe trattare, perché da una guerra commerciale con gli Usa (582 miliardi di dollari di interscambio bilaterale nel 2024), nel medio periodo, può solo rimetterci. Dall’altro Trump – che già le diede dell’untrice globale durante la pandemia di Covid-19 – ripete come un disco rotto le sue accuse contro la Cina: truffatori, manipolatori di valuta, ladri di lavoro americano tra le più gettonate.
Stereotipi americani
L’idea di Trump di «aprire la Cina» ricorda quella dell’imperialismo britannico con le guerre dell’oppio (1839-1842, 1856-1860). Allora però a Londra, prima di scatenare quei conflitti – grazie anche all’ambasciata di Lord George Macartney nel 1793 – si erano fatti un’idea chiara della corruzione e della decadenza dell’ultima dinastia, i Qing.
Oggi Trump – circondato da residuati bellici come il suo direttore dell’ufficio delle politiche per il commercio, Pete Navarro – pensa di avere a che fare con un paese sottosviluppato. In Cina sta suscitando indignazione popolare il video in cui il suo vice, J.D. Vance, dichiara: «Diciamocelo chiaramente, noi prendiamo denaro in prestito da contadini cinesi per acquistare beni fabbricati da quegli stessi contadini cinesi».
Ferire i cinesi nell’orgoglio ricordandogli un passato di arretratezza dal quale si sono affrancati dopo enormi sacrifici è il modo migliore per compattarli dietro al loro governo.
E infatti, assieme alla sparata di Vance, sui social cinesi è diventato virale l’editoriale con cui il Quotidiano del popolo prova a indicare vie d’uscita da quella che viene definita senza mezzi termini una «crisi», da «trasformare in opportunità».
Il giornale ha esortato la nazione a «resistere alla tempesta» e ha ribadito che l’esperienza maturata dalla precedente guerra commerciale (2018-2019) ha permesso alla Cina di approntare le misure per affrontare il ritorno di Tariff Man. Secondo l’organo ufficiale del comitato centrale del Pcc l’«abuso» dei dazi da parte degli Usa avrà un impatto sulla Cina, ma «il cielo non crollerà».
Dall’altro lato della barricata Stephen Miran – presidente del comitato dei consiglieri economici di Trump – ha sostenuto che l’economia cinese, fortemente dipendente dalle esportazioni verso i mercati avanzati, non ha la flessibilità necessaria per trovare rapidamente alternative commerciali agli Stati Uniti. Su questo scommette Trump per convincere Pechino a trattare una riduzione del deficit commerciale (295 miliardi di dollari nel 2024) aumentando le importazioni dagli Usa.
Chi cederà prima? Chi (la Cina) vedrebbe, secondo le prime stime, il Pil ridotto dell’1,5-2 per cento quest’anno o chi (gli Usa) dovrebbero fare a meno dei prodotti intermedi e dei beni di consumo a basso costo made in China?
Le nuove misure varate da Trump nel medio periodo rischiano di rallentare la crescita e compromettere l’obiettivo di allargare la classe media (circa 400 milioni di persone), alimentando lo scontento tra chi è rimasto indietro. I dazi del 34 per cento effettivi da mercoledì, sommati a quelli del 20 per cento approvati nelle scorse settimane e a quelli dell’11 per cento voluti da Joe Biden in base alla “Section 301” della legge sul commercio, portano le tariffe sui beni importati negli Usa dalla Cina al 65 per cento. Ora la minaccia di un ulteriore 50 per cento. Sono a rischio gli affari di migliaia di aziende della “fabbrica del mondo”.
Nei prossimi due-tre mesi, quando si sarà esaurito il surplus di merci esportato per compensare per un po’ l’effetto delle tariffe, l’impatto sull’economia cinese rischia di essere pesante.
Un piano di stimolo
Stando così le cose, nelle prossime settimane il governo di Pechino con ogni probabilità annuncerà un massiccio piano di stimolo della domanda interna, che potrebbe essere simile per entità a quello messo in campo durante la crisi finanziaria del 2008-2009, pari a 4.000 miliardi di yuan (586 miliardi di dollari).
Così come si è fronteggiato l’embargo hi-tech accelerando la rincorsa tecnologica, si proverà a combattere i dazi aumentando i consumi interni. Ma convincere i cinesi a spendere di più sarà tutt’altro che facile.