Per affrontare Trump, occorre capire cosa rappresenta. Parlo di Trump e non già dei tecno-oligarchi che si sono alleati con lui. In comune, Trump e questi ultimi hanno il grande disprezzo per le regole e l’ancora più grande apprezzamento per i soldi. Trump, tuttavia, è più di un rappresentante della tecno-destra. La quale, di per sé, non sarebbe stata sufficiente per fargli conquistare il voto di 77 milioni di elettori il novembre scorso. Quindi, cosa è il trumpismo? Considero due interpretazioni.
Per alcuni studiosi, il trumpismo rappresenta l’istituzionalizzazione del populismo. Dalla crisi dei debiti sovrani del 2008-09, il populismo (di destra come di sinistra) ha attraversato tutte le democrazie liberali, alterando equilibri politici e sfidando partiti consolidati. Ma solamente in America il populismo (di destra) ha conquistato uno dei due maggiori partiti (il partito repubblicano), portando la sua carica sovversiva all’interno stesso del sistema di governo .
Nel suo ultimo libro (Waste Land: A World in Permanent Crisis), Robert D. Kaplan ha parlato, riferendosi non solamente all’America, di una Weimar 2.0, cioè di una situazione di disgregazione politica, favorevole all’affermazione di politiche e politici autoritari, non dissimile da quella che caratterizzò la Germania di Weimar negli anni Trenta del secolo scorso. Per Mark Blyth (su Social Europe), il populismo è sempre cresciuto alimentando le paure dei cittadini (oggi degli immigrati, ieri degli ebrei), ma anche beneficiando dei risentimenti prodotti dalle diseguaglianze sociali (diffuse negli anni Trenta e ancora più accentuate oggi). I leader populisti sono così diventati i portavoce degli “outsiders” contro le caste degli “insiders”, anche se i loro leader (come Trump) soni dei miliardari. Dunque, il trumpismo è parte di una “rivoluzione” transnazionale, resa possibile anche dall’involuzione micro-identitaria del suo avversario, il liberalismo. Per Daren Acemoglu e Francis Fukuyama (su Foreign Policy), solamente un liberalismo rifondato può contenere il populismo autoritario, in America e in Europa.
Per altri studiosi, invece, il trumpismo è l’espressione di un fenomeno specificatamente americano, ovvero del nazionalismo sovranista nato alla fine della Prima guerra mondiale. Nel 1919, ha scritto Jennifer Mittelstadt (su The New York Times), il mondo dovette decidere se rilanciare l’internazionalismo oppure riaffermare il principio della sovranità nazionale. La proposta di costituire la Lega delle Nazioni rappresentò il cuore della visione internazionalista, mentre l’opposizione ad essa fu l’emblema della visione nazionalista. Che peraltro vinse, sconfiggendo quella proposta nel Senato americano (grazie ad un gruppo di senatori noti come gli “irreconciliabili”). Dietro quei senatori c’era un vasto movimento sociale costituito di organizzazioni patriottiche, associazioni di veterani di guerra, chiese del fondamentalismo protestante. Come disse il senatore Henri Cabot Lodge, il più influente dei senatori irreconciliabili, «la nostra fede consiste nel tenere vive le fiamme della Nazionalità». Così, negli anni Trenta successivi, il nazionalismo sovranista sostenne la ribellione franchista in Spagna e salutò con favore l’ascesa dei regimi fascista e nazista, in Italia e in Germania, anche perché dimostravano l’inutilità della Lega delle Nazioni. Alla fine degli anni Trenta, il nazionalismo sovranista si oppose all’entrata in guerra dell’America a fianco del Regno Unito, così come, dopo la Seconda guerra mondiale, condusse una battaglia contro le Nazioni Unite, la NATO, la Corte penale internazionale. Così, si oppose al GATT (l’accordo sulle tariffe e il commercio), in nome della libertà di perseguire un’autonoma politica dei dazi. Secondo la John Birch Society, che del nazionalismo sovranista divenne il luogo di elaborazione nel secondo dopoguerra, le organizzazioni internazionali minacciano l’autorità civilizzatrice delle nazioni bianche e cristiane come l’America, favorendo i Paesi ad essa ostili. I nazionalisti sovranisti fecero una battaglia feroce contro l’Immigration and Nationality Act del 1965 che, per la prima volta, alleggeriva le procedure per il riconoscimento degli immigrati. Così attaccarono duramente la decisione, presa dal presidente Jimmy Carter nel 1977, di riconoscere il diritto di Panama a controllare l’omonimo Canale, in quanto minacciava gli interessi nazionali, mentre sostennero la decisione, presa dal presidente Ronald Reagan negli anni Ottanta, di uscire dall’Unesco (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura). Molte idee del nazionalismo sovranista sono oggi confluite nel Project 2025 della Heritage Foundation. Progetto che sta ispirando l’attuale presidenza Trump nella sua opera di smantellamento dello stato federale e di disimpegno del Paese dalle organizzazioni internazionali. Un progetto che implica l’esistenza di un “esecutivo unitario”, con il presidente che può decidere senza vincoli. Ne consegue che il trumpismo può essere contrastato rafforzando il sistema interno di controlli e bilanciamenti.
Insomma, comunque lo si interpreti come un fenomeno generale o particolare, il trumpismo rappresenta una sfida senza precedenti alla democrazia liberale americana e al capitalismo regolato da essa promosso. Una sfida ancora più insidiosa se l’alleanza con gli oligarchi della tecno-destra reggerà alle future prove di governo.