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In “Boemia” l’autore aveva raccontato la partenza forzata nel 1915 dei sudditi austriaci per lidi ignoti. Anche nel secondo capitolo protagoniste le donne. E un eroico parroco
“Montagne nere” è il secondo romanzo della trilogia di Dario Colombo sull’esodo di 75mila civili. Finita la Grande guerra trovano la devastazione e un’identità da ricostruire
Quando i profughi delle valli trentine tornano a casa dalla Boemia alla fine della Prima guerra mondiale non riconoscono più il paesaggio un tempo familiare. «Erano i fianchi delle montagne che incombevano ai lati della mulattiera a riempire maggiormente il loro cuore di tristezza. Pini e abeti, faggi e carpini non c’erano più. Al loro posto scheletri schiantati dalle bombe dei grossi calibri, rasati dalle raffiche delle mitragliatrici, ingialliti dal veleno dei gas. La terra rivoltata dalle esplosioni esibiva le rocce bianche del suo scheletro». Anche la natura è ferita e partecipa del dolore umano causato dalla grande deflagrazione mondiale. Le cime sono diventate Montagne nere, espressione di una delle protagoniste che dà il titolo al romanzo di Dario Colombo (Minerva, pagine 272, euro 18,00), che sarà presentato venerdì 15 a Milano nell’ambito della rassegna Bookcity (Palazzo Morando, ore 16,30).
La storia riprende quella narrata in Boemia, romanzo uscito per lo stesso editore lo scorso anno, primo di una prevista trilogia che nel prossimo capitolo verterà sul periodo fascista, quando il regime arrivò addirittura a cancellare le tombe di quegli italiani che avevano combattuto per l’Austria. Merito di Colombo, giornalista di origini lombarde e trentine che alla Grande guerra ha dedicato anche saggi, documentari e opere teatrali, è di raccontare in modo corale e con partecipazione unita a precisione storica – una vicenda poco nota. E lo fa a partire da un vissuto familiare, al quale ha unito la ricerca delle fonti. Furono 110mila i civili della minoranza italiana – 75mila trentini e 35mila tra veneti e friulani – che furono deportati dalle autorità austriache in vari territori dell’Impero. Nella valli
trentine accadde, con soli due giorni di preavviso, nel maggio del 1915, quando l’Italia dopo le “radiose giornate” era entrata in guerra contro gli Imperi centrali. La motivazione ufficiale era quella di togliere i civili dalla linea del fronte. Ma il non detto era il sospetto che questi italiani – in realtà in maggioranza fedeli a Vienna, come avvertiva Alcide De Gasperi – potessero agire a favore del Regio esercito. Erano tutti donne, anziani e bambini, visto che gli uomini attivi già da un anno erano impegnati al fronte. Le strade che quella popolazione aveva percorso in direzione dell’esilio, nel 1918 sono ingombre di cavalli di Frisia, piene di mine e ordigni inesplosi, le case sono sventrate, dai crateri di bomba spuntano ancora cadaveri. Il tanto agognato ritorno si trasforma presto in un percorso a ostacoli. I profughi possono però sempre contare su due figure chiave, già protagoniste del primo romanzo: la maestra Cecilia e il parroco don Vigilio. I due si prodigano, al di là delle proprie forze, per organizzare il viaggio di ritorno e anche per preparare chi ha deciso di partire – i più, anche se c’è chi in Boemia si è costruito ormai una vita – al disastro che troverà. I due incoraggiano i compagni di sventura nella grande disillusione, e cercano di fronteggiare l’insorgere della nostalgia per la “cattività babilonese” in terra ceca, dove erano sì stranieri, ma si erano pian piano integrati e vivevano in una pianura dagli spazi aperti e luminosi che contrasta con il paesaggio ritrovato in patria.
Un contrasto che è non solo della natura, ma anche degli animi. Da un lato il Regno d’Italia – che già ai tempi dell’Unità aveva evitato di svolgere in quei territori i consueti plebisciti per timore di insuccessi – si mostra con loro tiepido nelle restituzioni dei beni e nell’organizzazione dell’accoglienza e della ricostruzione. Dall’altro anche loro si sentono ancora austriaci, diffidano dei ‘taliani. E vedono di mal occhio gli irredentisti, i quali hanno subìto il carcere duro per le loro idee, come rappresenta il personaggio di Rosina, tornata dalla dura prigionia scarnita fino a pesare solo 35 chili.
Ma non c’è solo il tema della nazionalità e della patria divisa in un mondo che sta cambiando i suoi assetti geopolitici. Sono tanti gli spunti di riflessione che il romanzo fornisce all’oggi. La guerra, ovviamente, inutile strage sempre in atto nella storia umana. L’esilio in terra straniera e il ritorno in patria per riprendere a fatica la propria vita (quante immagini della cronaca di oggi evocano!). Ma quale patria dopo lo sconvolgimento bellico? Le figure femminili sono sempre al centro come nel primo romanzo. Oltre a alla maestra Cecilia, c’è Olga, che a Praga, crocevia di soldati feriti e sbandati dal conflitto, trova impiego nel Commissariato per i profughi e l’amore con un giovane austriaco. Nel racconto c’è posto per il vissuto personale della maestra, sacrificato agli altri, il cui fidanzato Michele muore in guerra, mentre anche il figlio della famiglia nobile ceca che l’ha ospitata viene dichiarato caduto, ma per errore. E torna così la speranza di un amore mai concetizzatosi. Al ritorno in patria spunta, però, anche un galante ufficiale italiano che aiuta la donna, inviandole un medico militare quando lei è in pericolo di vita per la febbre spagnola. L’epidemia è un altro elemento che riporta il lettore con la mente ai precedenti storici del dramma recentemente vissuto con il Covid. C’è poi, a funestare la vita di Cecilia, il misterioso omicidio del padre, che avviene poco prima della partenza dalla Boemia.
Destini sballottati dalla tormenta bellica. Gli uomini – alcuni dei quali salvati dall’ingegno di Cecilia a don Vigilio che li hanno sottratti al fronte con la scusa di impiegarli come chiodaioli – si industriano a cercare cibo. E non esitano a tirar su qualche soldo rivendendo i metalli ricavati dagli ordigni inesplosi. È il fenomeno dei “recuperanti”, attività sulla quale Colombo ha potuto sentire la testimonianza del figlio di uno di loro. Attività pericolosa, che non manca di causare tragedie. Schegge di un periodo tragico che non va dimenticato.