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Poveri si nasce, è sempre più un’eredità Il lavoro non basta per uscire dalla crisi
Viaggio alle radici della questione sociale, della miseria immersa in Italia nel “fiume straripante” nelle città nell’indifferenza generale di cui parla il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale dei poveri. Il rapporto di Caritas italiana “Tutto da perdere” presentato ieri a Roma, racconta, anche con dati raccolti sul campo, storie dimenticate eppure comuni. Lo studio parte dai dati Istat che confermano l’impoverimento post Covid. Dal 2021 al 2022 sappiamo che gli italiani che sopravvivono sotto uno standard dignitoso sono passati da 5 milioni 316mila a 5 milioni 673mila con un aumento dell’incidenza sulla popolazione dal 9,1 al 9,7%. Peggiora chi viveva già in una condizione incerta e precaria – “i poveri si fanno sempre più poveri” – e il rischio povertà tocca 14 milioni di connazionali. Le anomalie italiane vengono confermate dai sensori territoriali dei centri di ascolto Caritas parrocchiali e diocesani che rilevano tanti nuovi poveri (il 45% del totale) e denunciano in particolare l’aumento dei lavoratori poveri, precari o sottopagati, provenienti in prevalenza da famiglie con basso livello di istruzione e rassegnati a non poter risalire dal fondo. Secondo l’indicatore specifico dell’Istat, su un totale di 23,3 milioni di occupati oggi ne risultano a rischio povertà circa 2,7 milioni. Altra anomalia italiana denunciata dalla Caritas – non è una novità – lo scandalo della povertà assoluta – economica ed educativa – di quasi un milione e 269mila minori. In un Paese bloccato, il titolo di studio dei genitori condiziona fortemente la probabilità di trasmettere la povertà ai figli, la famiglia di provenienza resta determinante per il futuro. In Italia, ad esempio, solo l’8% dei giovani-adulti con genitori che non hanno completato la scuola secondaria superiore ottiene un diploma universitario. La media Ocse è del 22%. Emblematica la storia di questa famiglia del Sud, il cui padre sogna un posto fisso come pizzaiolo dopo una vita durissima. « Mi chiamo Rosa – spiega la moglie – ho 40 anni e sono sposata con Renato. Viviamo da sempre in una periferia davvero desolata. Io mi sono fermata alla terza media, mio marito alle elementari visto che è cresciuto senza papà e aveva tre fratelli piccoli. Lui ha iniziato a lavorare a 11 anni per mantenere loro e la mamma. La sua giornata iniziava alle 9 in un bar dove lavorava fino a sera. Appena chiuso il bar, si spostava nella pizzeria a fianco e spesso tornava a casa alle tre del mattino. Eravamo giovani quando ci siamo conosciuti, avevano tante speranze ma eravamo provati dalle nostre vite. Viviamo una vita di stenti… Io non lavoro più per stare coi figli, mio marito invece fa lavoretti semplici e sta seguendo un corso per diventare pizzaiolo grazie alla Caritas e sogna un lavoro fisso. Siamo aiutati dalla Caritas diocesana anche attraverso i pacchi spesa, a volte mi rivolgo ad alcune parrocchie del quartiere per avere altri aiuti alimentari e non sempre riusciamo a garantire un pasto dignitoso ai
nostri tre figli. Federico è il più piccolo, ha appena imparato a correre, sembra che abbia due anni ma ne ha sette. Poi c’è Mirko di 11 anni che ama molto studiare, forse anche troppo. Francesco di 17 anni invece ci preoccupa. È sempre stato vivace e quando frequentava le elementari gli furono diagnosticati una forma di dislessia, problemi comportamentali, iperattività. Ha sempre dato filo da torcere agli insegnanti. Ora, dopo tante difficoltà, sembrava aver trovato la sua strada iscrivendosi a una scuola professionale per barista. Però non accetta l’idea di lavorare in bar e ristoranti dove si fanno turni serali e si lavora il fine settimana, preferisce uscire con gli amici. Vuole uscire dalla condizione di povertà della nostra famiglia a tutti i costi».
La rete Caritas, che conta su quasi 85mila volontari, secondo l’indagine ha aiutato e sostenuto in tutto 256mila persone nel 2022, dato sottostimato perché esclude le parrocchie non collegate. Rispetto al 2021, il numero degli assistiti è cresciuto del 12% sia per l’accoglienza dei profughi ucraini che per la crisi economica.
La maggioranza degli assistiti sono stranieri (59,6%), con punte del 68 e del 66% nel Nord-Ovest e Nord-Est. Sud e Isole vedono invece prevalere le richieste di aiuto di italiani. Il 56% degli immigrati sono coniugati, mentre i cittadini italiani sembrano dividersi tra sposati (31,6%), celibi e nubili (30,2%) e separati o divorziati (23,5%). L’età media risulta molto diversa tra italiani e stranieri, 53 anni per i primi e 40 per i secondi. E sono 85.349 le famiglie con figli minori che si sono rivolte ai centri Caritas, spesso guidate da donne giovani e perlopiù coniugate. Chiara la correlazione tra fragilità economica e bassa scolarizzazione degli adulti di riferimento, che nel 66% dei casi hanno un titolo di studio pari alla vecchia licenza media. Nei cittadini italiani il dato sale addirittura al 75,6%.
« Mi sono sposata due volte – racconta una donna assistita dalla Caritas in una città del Centro Italia – il mio primo marito è morto. Dopo alcuni anni, mi sono risposata e purtroppo sto divorziando. Il mio secondo marito è fuggito lasciandomi con due bambini, un maschio di 15 anni e una femmina di quasi 13. Poi ho un figlio di 25 anni avuto con il mio primo marito. Da ragazza non avevo voglia di studiare, mi sono fermata alla terza media e a 16 anni sono andata a lavorare. Vivo da abusiva in un alloggio popolare, siamo stati tre mesi senza corrente elettrica. Ci hanno tolto la luce perché ero una cattiva pagatrice. È avvenuto in inverno quando era sempre buio. Con i miei figli stavamo fuori casa fino alle 19.30 di sera, si mangiava con la candela e si andava a letto. Anche per loro è stata molto dura».
Rispetto al 2021, il numero degli assistiti è cresciuto del 12% sia per l’accoglienza dei profughi ucraini che per la crisi economica.
Il 22% degli assistiti della Caritas è un lavoratore sfruttato o sottopagato, per due terzi anche da cinque anni. Tra le cause, oltre al basso livello di scolarità, lo sfruttamento nella grande distribuzione, che impone spesso contratti part time, turni indefiniti che limitano la possibilità di trovare un secondo lavoro, l’utilizzo improprio di tirocini per i giovanissimi, le finte partite Iva. Il sommerso prevale nel settore domestico. Due su tre fra gli intervistati hanno cominciato a lavorare da minorenni. Come L., napoletano, che ha iniziato a 16 ed è sfruttato da una vita. « Lavoro in un negozio di calzature. Sulla situazione contrattuale c’è molto da dire. Non rispetta le ore in busta paga né i festivi, non mi è nemmeno riconosciuta la quattordicesima. Tfr e tredicesima sono in busta paga, ma devo sempre restituire i soldi».
Uscire dal “fiume” è difficile, la cultura ad esempio è diventata roba da ricchi. S., mamma bresciana lo conferma. « È impensabile vivere con 600 euro al mese. Vuol dire non mangiare, non pagare le bollette, non potersi permettere di far crescere i figli con attività minime culturali che siano uno strumento musicale, uno sport, il cinema o il teatro. Purtroppo la cultura in Italia è raggiungibile solo da chi se la può permettere. Una buona fetta delle famiglie italiane rimane così ignorante e i ragazzi crescono in un contesto in cui c’è solo la scuola. Non va bene». Oppure basta una malattia a ributtarti sul fondo. «Sono preoccupato – lamenta F., sempre di Brescia – per le spese per la salute, perché vai a fare un minimo controllo e ti domandano una cifra».
Vite di milioni di persone che hanno tutto da perdere e a cui vanno restituiti dignità e diritti essenziali.