Asinistra i problemi di partito, ci viene spiegato spesso, non interessano a nessuno fuori dalla bolla dei media ostili. Dovrebbero, invece. La ragione si ricava dalle conseguenze sull’alleanza del dirigismo di Giuseppe Conte sul M5s; ma anche da qualche esempio di cronaca democratica. Ieri la segretaria del Pd è stata in Basilicata per una battaglia ormai tutta in salita, quella del voto di domenica e lunedì.
Per mesi quella regione è stata l’epicentro di una desolante sit-com fatta di candidati che venivano scelti e poi cadevano come birilli, con palle sparate Roma-Potenza andata e ritorno. Quando si è ritirato il secondo prescelto, dal Nazareno si sono indignati con i dirigenti territoriali: «Ma lo avete scelto voi».
In realtà in Basilicata si è ripetuto a parti inverse il travaglio della scelta della candidata della Sardegna: ma lì Conte ha imposto la sua Alessandra Todde, e non si è spostato di un millimetro. Schlein si è messa in scia; è andata bene. In Basilicata toccava al Pd esprimere il candidato.
Ma Schlein non ha voluto o saputo imporre il candidato naturale del centrosinistra lucano, l’ex ministro Roberto Speranza. Il quale ha opposto ragioni non solo personali e non trascurabili, ma forse superabili in presenza di un partito che lo tutelasse dalla marcatura minacciosa dei no vax, aizzati dalla destra. In Puglia le inchieste hanno terremotato il Pd, Schlein ha riflettuto a lungo prima di chiedere al presidente Emiliano «un netto cambio di fase», tradotto rinnovare la giunta e cambiare «sistema».
Emiliano oppone il fatto che «a Roma non conoscono lo statuto regionale». Se così fosse, sarebbe un problema del partito, grave tanto quanto i sistemi di raccolta di voti locali. Oggi è stata ufficializzata la corsa nelle liste di Avs di Ilaria Salis, l’italiana detenuta in Ungheria. Le aveva offerto la candidatura anche Schlein. Ma la notizia una volta filtrata sulla stampa ha scatenato dubbi nel gruppo dirigente, ed è finita là. A Roma intanto ferve il lavoro sulle liste per le europee. La segretaria vuole chiuderle alla direzione di domenica, ma lo potrà fare solo a patto di chiarire quello che in questi mesi non ha chiarito: i candidati e il profilo da imprimere alla futura delegazione di Bruxelles. Un lavoro che svolge in solitudine, con un gruppo scelto di dirigenti che, contati su una mano, fanno avanzare tre, al massimo due dita.
A ogni obiezione ha risposto che lei è chiamata a fare quello che «il popolo delle primarie ci ha chiesto». Altro punto che riguarda il partito: contrapporre il popolo delle primarie agli iscritti assicura successo mediatico, così come agitare la lotta al correntismo. Funziona sui giornali, ma solo lì. Siamo certi che Schlein non si ispiri alla disintermediazione renziana, dunque non vuole decidere da sola.
Ma anche la tessera con lo sguardo di Berlinguer può essere un’idea se la scelta è ragionata e condivisa, anche fra non ex pci, persino fra ex dc: ma è stata fatta perché Berlinguer era un comunista, o perché era il meno comunista dei segretari comunisti, o perché è l’emblema della questione morale, ma che cos’era davvero la questione morale e quali culture ha generato?
Se per la Basilicata, per la Puglia, per le liste, per Ilaria Salis, per la tessera, la segretaria non vuole consultare caminetti, cosa encomiabile, ma dà l’impressione che non voglia confrontarsi con nessuno: vuol dire che o non si può fidare di nessuno, e sarebbe un altro problema; oppure che ha un preciso piano in testa, fare quello che le ha «ha chiesto il popolo delle primarie», e allora non si capiscono gli ondeggiamenti (come quello su Conte). Il decisionismo è un azzardo se non si è solidi nell’analisi, ma l’indecisionismo rischia di comunicare mancanza di solidità.
Se ne esce con una sana riflessione sul partito, quella che chiedono proprio le maledettissime correnti. Invece il popolo delle primarie o diventa presto popolo di partito, o per statuto se ne infischia: cerca “solo” un leader.