BESTSELLER
sara ricotta voza
Se il prossimo Grande Romanzo Americano è destinato a essere un saggio, in Europa chi ha fatto il percorso inverso non si pente. Sulla gallery di Zoom ho assistito al dialogo fra due autori che hanno incrociato il loro sapere di accademici con la forma più classica della narrativa; ed è andata bene, anzi benissimo. Uno è il filosofo norvegese Jostein Gaarder che con Il mondo di Sofia ha venduto 45 milioni di copie e a trent’anni dall’uscita del libro continua a essere un longseller; l’altro è lo storico dell’arte francese Thomas Schlesser che con Gli occhi di Monna Lisa pubblicato quest’inverno è ai vertici delle classifiche e in Italia ha già avuto quattro ristampe.
Il dialogo era serio ma anche allegro, con i tratti di una colta “carrambata”. Gaarder oggi ha 72 anni, Schlesser 46 e quando uscì Il mondo di Sofia era un diciottenne che lo aveva letto per preparare il suo “Bac”. Quindi grande gioia di conoscersi e di parlare – Gaarder da Oslo, Schlesser da New York dov’è in tour promozionale – di quel che li accomuna. Oltre ad avere lo stesso editore italiano (Longanesi) entrambi hanno scritto di storia della filosofia e dell’arte attraverso le vicende, più o meno avventurose, di due ragazzine curiose. Sofia riceve lezioni di filosofia – dai presocratici a Hegel – da un misterioso professore che le lascia dispense nella cassetta della posta; mentre Lisa, che pare stia per perdere la vista, è accompagnata dal nonno nei musei di Parigi per riempirsi gli occhi dei capolavori che potrebbe non vedere più.
I numeri monstre dell’uno e l’avvio col botto dell’altro dimostrano quanto l’incrocio dei generi piaccia ai lettori e funzioni sul mercato, trent’anni fa come oggi, specie quando saggio e romanzo hanno un rapporto osmotico. La cosa interessante è però che, se chiedi direttamente ai due una definizione del genere dei loro libri, entrambi – quasi piccati – rispondono: «È un romanzo!».
Poi precisano, Gaarder dicendo che il suo è «un romanzo sulla storia della filosofia» perché all’inizio voleva scrivere un manuale di filosofia che fosse comprensibile, «ma poi nel lavorarci mi accorgevo che avevo cominciato con la frase “L’essere umano si è sempre posto domande filosofiche” ed era così noioso che dopo trenta pagine ho smesso; fino a che mi è venuta l’idea di una ragazza di 15 anni che torna da scuola con l’amica e comincia a parlare di questioni filosofiche». Così si spiega anche l’immediato successo: «Lo hanno letto in tanti, dai 15 ai 100 anni, perché era una storia e non un manuale».
Schlesser definisce il suo un “romanzo di formazione” e lo specifica come «una iniziazione alla vita attraverso l’arte» e non come introduzione alla storia dell’arte, «perché di queste ce ne sono tante, ma non toccano un largo pubblico come sta riuscendo a Gli occhi di Monna Lisa. E succede perché è una storia». Entrambi concordano su “storia” come parola chiave, e del resto pure Papa Francesco nella sua autobiografia Life appena uscita – ovviamente bestseller -, ricorda che «l’uomo è un essere narrante e ha fame di storie, fin da piccolo».
Fin qui la sovranità letteraria del romanzo è salva, ma siccome esso stesso è creatura polimorfa e i libri in questione sono ibridati con discipline che richiedono un certo grado di scientificità, la sfida è limitare lo specialismo senza cadere nella banalità. Schlesser ammette subito che il rischio c’è eccome, e lui – che a scrivere il libro ci ha messo dieci anni – ha cercato di ovviare «con un procedimento letterario, e cioè studiando un mix di registri linguistici molto diversi, che si alternano a seconda dei momenti». Alle descrizioni delle opere d’arte, che si distinguono anche visivamente perché in corsivo, «ho riservato la lingua dotta dei saggi: poi c’è un livello intermedio, quando il nonno deve spiegare qualcosa di complesso per la nipote, e allora ricorre a figure retoriche come la preterizione, che è non dire per dire; infine c’è un linguaggio più familiare, con cui il nonno racconta la vita di un artista in poche parole».
Gaarder ricorda che il genere scelto richiede volutamente una semplificazione, e per spiegarne il valore fa un esempio semplice: «è come se uno facesse autostop per andare da Oslo a Roma e un’auto si fermasse dicendo che arriverà solo a Milano; intanto la puoi prendere fino a lì, poi da Milano a Roma sceglierai di andarci in altro modo». Che il messaggio sia passato lo dimostra l’accoglienza – più che benevola – ricevuta dagli accademici di tutto il mondo già trent’anni fa. «Mi hanno detto che gli studenti di filosofia erano aumentati e li avevo stimolati a leggere di più, per esempio spingendoli ad andare in biblioteca a cercare i Dialoghi di Platone». Stessa esperienza positiva oggi per Schlesser che racconta di «essere già stato invitato a parlare in molte università francesi e in seminari alla Scuola del Louvre e della Normale».
Parliamo di “divulgazione” ma nel Mondo di Sofia Gaarder scrive che la comprensione implica sempre uno sforzo personale, quindi una fatica richiesta anche al lettore. Gaarder al lettore chiede soltanto «concentrazione», Schlesser «anche la pazienza di accettare, davanti alle opere d’arte, che non tutto è solo emozione diretta».
Un genere che potremmo definire ibrido ora sembra uno sbocco naturale, ma quando Gaarder lo introdusse non lo era affatto, la novità poteva apparire una provocazione: nel Mondo di Sofia l’atomismo di Democrito viene spiegato con i Lego… Visto però il successo travolgente, vien da chiedersi se l’accoglienza calorosa da parte di Accademia e studenti non sancisca, oltre che la complessità del contemporaneo, anche il fallimento della scuola. «No no, fallimento no» ricusa Gaarder, «è solo il linguaggio filosofico a essere spesso inaccessibile; penso a Hegel, la cui filosofia non è difficile quanto lo è invece la sua lingua, che necessita quasi di una “traduzione”. I ragazzi invece hanno bisogno di capire su che cosa un filosofo stia investigando, quale sia il suo progetto». Gaarder sul tema è un fiume in piena, si vede che la sua narrativa nasce dall’urgenza di passare un testimone. «Il mondo di Sofia è basato sul mio insegnamento non sul mio intelletto, sul dialogo con studenti giovani e curiosi». Da cui veniva fuori qualcosa di inaccettabile per lui: «Io iniziavo le lezioni facendo domande e dicendo che noi esistiamo, che esiste un pianeta, una via lattea il sole e le stelle. E loro si meravigliavano e dicevano “è vero, non ci avevo mai pensato…”. Ecco, io lì ho capito che si poteva vivere un’intera vita senza riflettere sull’esistenza». E “indagare l’esistenza”, guarda caso, è lo specifico del romanzo per il Kundera saggista dell’Arte del romanzo.
Schlesser concorda perché anche nel trasmettere la storia dell’arte «molte sono le vie dell’insegnare e dell’imparare». E quella da lui scelta sembra quasi un piatto di nouvelle cuisine, una cucina creativa libera da generi, sottogeneri e dogmi letterari dove un’inedita distribuzione degli ingredienti porta a una ricetta tutta nuova. Più che nell’illustre precedente di Gaarder, negli Occhi di Monna Lisa ci sono riflessioni personali, filosofiche, idiosincrasie, musica. «Non so se definirla nouvelle cuisine letteraria ma certo io non mi sono posto limiti né letterari né culturali» spiega Schlesser, «Volevo essere libero di dire quel che mi premeva: di cultura popolare, storia, religione, dibattiti sociali; il mio non è un libro autobiografico ma è pieno di sensazioni autobiografiche».
Non resta che parlare dei risultati, al di là del successo commerciale. Gaarder è soddisfatto perché ritiene che «romanzi come i nostri, che riescono a far leggere molte persone, costituiscano una sorta di correttivo alla quantità di fake news e “fatti alternativi” veicolati da personaggi come quello che forse diverrà il prossimo presidente Usa». E ancora: Gaarder è fiero di aver fatto conoscere al grande pubblico il nome – sconosciuto ai più trent’anni fa – di Olympe de Gouges, inserendola nel Mondo di Sofia nel capitolo sull’Illuminismo; così chiede a Schlesser se quella che considera «una filosofa socratica uccisa per il suo pensiero» nelle scuole francesi sia studiata. Schlesser conferma che quando era studente nessuno gliene aveva mai parlato e che «solo negli ultimi anni è stata riscoperta grazie a un graphic novel su di lei». Un altro ibrido di qualità.
Quanto a lui, tocca chiedergli se come esperto di Courbet sia consapevole che un grande tributo del suo libro alla storia dell’arte sarà l’aver fatto scoprire a una gran fetta di lettori – forse del mondo – che Courbet non è il pittore di un solo quadro. Schlesser sorride, ma non per la natura libertina dell’Origine del mondo, piuttosto perché trova «buffissimo che quest’opera scoperta solo negli anni 80-90 sia considerata il capolavoro dell’artista, mentre è un fenomeno recente; per decenni Courbet è stato famoso per Funerale a Ornans, dipinto che ho inserito fra quelli che il nonno mostra a Lisa perché è un’opera complessa, sfidante e stimolante, molto più dell’Origine del mondo».