Non ci sono più parole. Come sempre, ha ragione il Capo dello Stato, ad affacciarsi ormai silente sull’abisso nel quale sprofonda il lavoro. Lavoro ucciso, ancora una volta, dall’ignavia dell’uomo. Lavoro svilito dalla politica, che lo usa solo se e quando conviene, per la bugiarda propaganda di regime.
Lavoro tradito dall’impresa, che lo sfrutta come e quando può, per la ferrea legge del profitto. Lavoro offeso due volte, a Borgo Panigale. Non in un cantiere edilizio dove egiziani e rumeni si immolano in subappalto, o in un polveroso campo di pomodori dove indiani e maliani si spaccano la schiena.
No, stavolta nella fabbrica-modello di un ex “colosso dell’auto”: la famosa Toyota, che per dare un degno saluto a Lorenzo e Fabio — morti ammazzati a poco più di trent’anni dall’esplosione di uno “scambiatore di calore” — il giorno dopo ha messo in cassa integrazione gli 870 colleghi che li piangono. I sopravvissuti della mitica classe operaia, che per troppa fretta riformista e modernista abbiamo data per estinta, e che invece esiste e resiste, suda e crepa.
Torno a Sergio Mattarella. Al suo ultimo discorso di pochi giorni fa a Milano, al centro immigrati Franco Verga. «La Costituzione invita istituzioni e società a rendere il lavoro sicuro contrastando morti e infortuni, una piaga intollerabile, ancor più nel tempo dei più grandi progressi tecnologici», aveva scandito. Poi aveva aggiunto: «La vita delle persone vale immensamente più di ogni profitto, interesse o vantaggio produttivo… ».
Fa male dirlo: un’altra splendida “predica inutile” del presidente della Repubblica. Come quella del Primo Maggio: «La sicurezza non è un costo, è un dovere… Dobbiamo combattere questo flagello, e non stiamo facendo abbastanza… ». Come quella del 13 settembre, in una lettera alla ministra Calderone: «Le morti sul lavoro feriscono il nostro animo, le persone nel valore massimo dell’esistenza, la società nella sua interezza: da tutti voi dipende la vita di madri, padri, figli, lavoratrici e lavoratori che finito il proprio turno hanno il diritto di tornare alle loro famiglie… ». Come quella dell’8 ottobre, Giornata nazionale per le vittime del lavoro: «Morire in fabbrica, nei campi, è uno scandalo inaccettabile per un Paese civile, un fardello insopportabile per le nostre coscienze…».
In 1.200 se ne sono andati, l’anno scorso. E già più di 700 quest’anno. E anche di questi poveri cristi — passato il cordoglio, esaurito lo sdegno, sbollita la rabbia — è rimasta e rimarrà solo un’immagine incorniciata in salotto. Come hanno cantato inutilmente Stefano Massini e Paolo Jannacci all’ultimo Festival di Sanremo: “Un lampo mi portò via/ e di me non resta che una fotografia”. L’ho già scritto, e mi ripeto: dei morti sul lavoro non frega niente a nessuno. Li piangono le famiglie, ora e per sempre.
Ma per il resto sono solo un dolente comunicato del giorno. Una variante estemporanea del palinsesto tv. Lavoro nero e sommerso, gare al massimo ribasso, affidamenti privati, subappalti a pioggia.
E poi controlli inesistenti, o insufficienti. Gli organi di vigilanza denunciano da decenni una drammatica carenza di ispettori: gli ispettori Inps-Inail sono 5 mila, oberati e malpagati, mentre ne servirebbero il triplo. Su una platea di 4,5 milioni di imprese, le ispezioni sono 70 mila l’anno, e con le norme delle due ultime leggi di bilancio si fanno solo previo avviso di 10 giorni alle aziende da controllare, e indovinate come va a finire. L’anno scorso è stato dimezzato il Fondo nazionale per gli indennizzi alle famiglie delle vittime, limato il tetto ai risarcimenti (da 6 a 4 mila euro per i minimi e da 22.400 a 14.500 per i massimi) e abbattuta da 16 a 10 ore la formazione obbligatoria nei settori più a rischio (edilizia, smaltimento rifiuti, lavorazione dei metalli).
La classe operaia non va più in paradiso da un pezzo. Sta sospesa tra il limbo e l’inferno. Ma è mai cambiato qualcosa, in tutti questi anni di mattanza infinita nei quali muore un lavoratore ogni otto ore e mezza? Chiedete cosa è cambiato a Lorenzo e Fabio, scoppiati insieme a un boiler tre giorni fa. Chiedetelo a Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario, Giuseppe, martoriati dal fuoco della Thyssenkrupp in un maledetto turno di notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. A Marco, Bobo e Filippo, venuti giù da una gru a Torino devastata dai centomila ponteggi del bonus facciate, il 18 dicembre 2021. A Michael, Giò, Saverio, Peppe e Kevin, maciullati da un locomotore a Brandizzo, mentre manutenevano i binari in una sera del 31 agosto 2023. O chiedetelo a Luana D’Orazio, 22 anni e mammadi un bimbo di 5, divorata dal suo orditoio a Prato il 3 maggio 2021, e magari pure ai suoi genitori, risarciti con 166 mila euro. Insomma, chiedete a tutte le anime che ora popolano l’immenso Cimitero dei Diritti, dove le abbiamo sepolte insieme alla dignità, alla civiltà, alla solidarietà. E insieme alla Costituzione, soprattutto. Quella fondata proprio sul lavoro e sul lavoro dimenticata, oltraggiata, stuprata.
È sempre Mattarella a scuotere le nostre anime nella notte del civismo. «Il lavoro è stato il motore principale dello sviluppo del Paese e della crescita umana, civile, sociale, culturale… Con il lavoro si è costruito il welfare italiano, elemento basilare dei diritti di cittadinanza». Ma quanto vale, il lavoro, se diventa fungibile come una merce qualsiasi? Siamo tutti affascinati dalla bicicletta di Tadej Pogacar, il mostro del ciclismo che stravince Mondiali, Tour de France e Giri d’Italia: è una magnifica, italianissima Colnago, con telaio in carbonio Made in Cina, cambio Shimano fabbricato in Giappone, cerchioni costruiti in America, pneumatici, ciclocomputer di bordo e tutto il resto prodotti in altri cinque Paesi diversi. La globalizzazione e l’innovazione tecnologica sono una meraviglia, ma solo se a farne le spese non sono quelli che le trasformano in prodotti e servizi, pagati sempre meno e sempre meno garantiti. L’Intelligenza artificiale è una sfida affascinante, ma solo se non si trasforma in decadenza esistenziale. E qui — senza buttarla in bassa politica, anche perché il deficit riguarda tutti i governi degli ultimi decenni — una riflessione critica andrà pur fatta su questi turbo-populisti al potere pronti a stappare un Ferrari per ogni zerovirgola in più del tasso di occupazione. Senza mai riconoscere che le ore lavorate sono diminuite (Istat, secondo trimestre), le assunzioni a tempo indeterminato si sono ridotte rispetto al 2023 e le trasformazioni in contratti stabili sono scese da 450 a 435 mila (Inps, primo semestre). Ma soprattutto senza ammettere che, nel frattempo, la macelleria sociale sui salari è continuata con gioia feroce, con i redditi orari da lavoro dipendente che sono ormai inferiori del 25 per cento a quelli di Francia e Germania.
Parlateci del lavoro che soffre e che svapora, furiosi Fratelli-Coltelli che vi scannate per un capo di gabinetto linciato per omosessualità e cacciato per infedeltà al cerchio tragico delle Sorelle d’Italia.
Parlateci di salari da fame, gloriosi patrioti al comando che spacciate con comodo videomessaggio manovre economiche “per la crescita e lo sviluppo”, ma intanto chiedete solo timidi anticipi di cassa alle banche, ignorate il ceto medio, affamate la sanità e umiliate con 3 euro in più al mese i pensionati al minimo. So di chiedere troppo, a chi la Costituzione la vuole rottamare e riscrivere per imporre la nuova “egemonia culturale” della destra post-missina. Ma rileggetevi Costantino Mortati, come vi invita a fare il Quirinale. Scoprirete che condividere l’idea del lavoro come fondamento della Repubblica — come abbiamo fatto nel ’48 con l’articolo 1 — significa tenere unita la base sociale e morale del Paese. Un percorso nel quale la democrazia alimenta equità e libertà. Una libertà uguale, per una dignità uguale.