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MASSIMILIANO CASTELLANI
Da jazzofilo, cresciuto sotto le notti di note stellate di Umbria Jazz, tutto quello che avrei voluto dire con parole mie su Miles Davis l’ho sentito “pronunciare” dalla tromba di Paolo Fresu. Del resto, qualche mese fa parlando con la grande anima di Berchidda, ha detto: «La tromba è lo strumento più vicino alla voce, quello che attraverso le labbra fa vibrare di più il nostro corpo. Nella storia del jazz molti grandi musicisti, Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Chet Baker e naturalmente Miles Davis, hanno unito la voce della tromba alla loro voce. Io non ho bisogno di cantare, a dire il vero non ne sono capace, ma canto con lo strumento». E da quello strumento, che Fresu cambia continuamente ad ogni concerto («sono dei prototipi creati apposta per me. Me li fanno senza doratura, suonano meglio e poi sembrano vecchi perché si ossidano subito») ora è il momento di far “parlare” la voce unica e inimitabile di Miles Davis. Un disco, Kind of Miles che è anche la colonna sonora dell’omonimo concerto-spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, che ha girato le sale e i teatri italiani suscitando negli spettatori due sensazioni diffuse: stupore e voglia di approfondire la sterminata e policroma discografia del trombettista e compositore afroamericano. «Miles amava il pugilato», ricorda dal palco Fresu e questo doppio progetto, disco e live teatrale, è una sfida musicale e narrativa di rara sensibilità. Una magia, che sicuramente avrebbe apprezzato il puro e umorale “Dark Magus”, a cominciare dalla versione struggente e melanconica di It never entered my mind che apre il primo dei due cd, quasi del tutto acustico, e che ha per sottotitolo Shadows. Ombre e chiaroscuri, illuminati dalla soavità di una tromba che sa essere romantica e riconoscente quando reinterpreta Autumn leaves: «Il primo brano di Miles ascoltato in vita mia, che Davis aveva eseguito alla sua maniera con il suo quintetto, a Juan-Les Pins nel 1963». La narrazione di Fresu, dal palco al disco, ricalca fedelmente la potenza rivoluzionaria di quel genio assoluto che ha scollinato, un tasto alla volta, dal bebop, al cool, all’elettrico,
sconfinando, da “eretico” – almeno per il mondo jazz classico, tradizionalista e conservatore degli anni ’50-’60 – , fino al pop.
Manifesto assoluto di questa contaminazione, a volte aspra e selvaggia è la celeberrima Time After Time che i ragazzi degli anni ’80 hanno cantato seguendo il timbro ribelle di Cindy Lauper, l’antagonista di Madonna, che per Davis però era in assoluto la voce femminile del pop americano. E ribelle quanto basta è anche la band di Fresu che ha scelto un gruppo di virtuosi: Dino Rubino al piano, Marco Bardoscia al contrabbasso, Stefano Bagnoli alla batteria, Bebo Ferra alla chitarra elettrica, Filippo Vignato al trombone, Federico Malaman al basso elettrico e Christian Meyer alla batteria.
Grazie a questo accordatissimo ensamble jazzistico passando dalla pietra miliare di Round Midnight , opera dell’altro genio assoluto che fu Thelonius Monk, fino a Venere, pregevole composizione di Fresu, quanto le sue Back in e Call it something, si avverte costantemente l’ombra di Miles.
Raramente accade di provare le stesse sensazioni e le identiche emozioni poderose che suscitano un video quanto una musica suonata, ma il sentiero filologico di Fresu fanno davvero immaginare e rendere più vive che mai quelle «mani rugose e scure, solcate dal tempo che disegnano il pianeta attraverso un reticolo di linee tra gli oceani, l’Africa e il mondo e hanno toccato il cuore». Quello di Miles è stato il grido di una tromba che ha lottato e fatto a botte, anche su un ring, per difendere i diritti calpestati dei neri d’America. La marcia di Davis, cominciata nel 1926, anno della sua nascita, è terminata troppo presto, nel 1991, e Fresu l’ha solo «sfiorato» dopo un concerto di Umbria Jazz, a Terni, nel 1984. Quindi il vero “incontro” avviene con Kind of Miles, con cui la tromba di Berchidda chiude una trilogia composta da Tango Macondo e l’altrettanto fantastico spettacolo-concerto Tempo di Chet. Un’altra ombra, quella di Chet Baker, apparsa fugacemente nella vita di Fresu sul palco dell’Ariston di Sanremo: «Avevo 22 anni quando Chet mi sentì durante una prova e disse che il mio Monk era ok». Quello è stato il lasciapassare per entrare nella valle dell’eden jazzistico e seguire la scia di Miles che gli ha insegnato a suonare voltando le spalle al pubblico e a volgere la tromba a terra «per stabilire un rapporto più diretto con i musicisti e con la terra stessa». Questo fa di Miles Davis il suo mito, “vivente”. Infatti, all’interno del disco, Fresu prende a prestito le parole di Albert Camus: «I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi».