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Gli affreschi dell’incredibile Casa del Tiaso a Pompei evocano culti misterici. Un dio che prometteva la vita eterna
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A Pompei, in quella che è stata ridenominata “Casa del Tiaso”, da un passato che in rare occasioni come questa sperimentiamo ancor vivo con occhi incantati, emergono forme colorate e danzanti, in magnifico corteo: figure che, su piedistalli, particolare non secondario per l’effetto prodotto, spettacolare, si muovono, quasi incuranti dello sguardo altrui. Dioniso è presente, e volteggia, incitando le sue seguaci, e invisibile fà loro da guida. Estatiche, esse lo scorgono, nel frastuono del corteo. Fanno da contorno all’incedere festoso, quasi lirico, i resti di animali sbranati dalla femminile furia divina, l’altra faccia dell’indissolubile legame vita-morte, il probabile segreto senso del “dionisiaco”.
Dopo i tanti tentativi di lettura della religione dionisiaca che si sono susseguiti nei secoli, alla domanda “chi fu Dioniso” riteniamo di avere pronta la risposta; il dio che, in coppia o in gara con Apollo, ha segnato indelebilmente l’esperienza greco-classica del sacro. Appena però proviamo ad approfondire ulteriormente l’orizzonte di pensiero e di religiosità nel quale Dioniso, e il fenomeno complessivo del dionisiaco, si sono inseriti nel corso dei secoli, partendo dal contrasto e dall’opposizione tra culti precristiani e cristiani, sfociati infine nell’affermazione del cristianesimo, il quadro che ne emerge si fa decisamente più incerto. Chi scrive ha dovuto rendersene più volte conto anche di recente, nel momento in cui cioè ha curato la versione italiana di un testo di Walter Friedrich Otto espressamente dedicato a Dioniso. Mito e culto (Adelphi). Pubblicato nel 1933, questo studio non sembra aver perso nel tempo quello smalto che ne aveva accompagnato l’apparire all’epoca, e la sua lettura potrebbe risultare utile ancor oggi per avvicinare il fenomeno del ritrovamento da cui siamo partiti, per contribuire cioè a inquadrare ancor meglio le “scene” che compaiono negli affreschi così sapientemente restituiti allo sguardo dei visitatori odierni. Prendiamo ad esempio la questione della cosiddetta promessa d’immortalità dell’anima personale cui i culti misterico-dionisiaci si ritiene siano connessi. Si tratta di uno spartiacque fondamentale nella ricostruzione storico-culturale, ed esistenziale-religiosa, della civiltà che ancora ha senso definire occidentale. Senza perderci in particolari eccessivi, ci si troverebbe di fronte a un momento cardine, in grado di connettere l’idea di una vita ultraterrena, l’immortalità personale insomma, con l’iniziazione a una cultualità che quella promessa di immortalità mostrerebbe per così dire visivamente all’iniziato stesso, appunto nel corso dei riti che accompagnano il culto di Dioniso. L’iniziato diviene depositario di una sapienza che letteralmente gli spalanca le porte di una vita ulteriore dopo la morte fisica, vita ulteriore dipendente in gran misura, o persino completamente, non tanto da un’etica, un comportamento in questa vita, quanto soprattutto da una fede visionaria nella vita simbolica di Dioniso stesso. La domanda su “chi” sia Dioniso diviene dunque centrale, in questa prospettiva. Ma proprio qui iniziano le difficoltà e le incertezze poiché Dioniso non è “uno” ma “molti”, nel senso che le sue storie, ovvero i suoi miti, raccontano vicende differenti a seconda delle zone geografiche della Grecia (e forse dell’Asia minore, persino fino in India!) nelle quali i suoi culti sono storicamente testimoniati. Sono davvero, tutte le storie che lo riguardano, unificabili sotto il segno della promessa dell’immortalità a fedeli e iniziati? Se così fosse, il segreto dei Misteri dionisiaci, la rivelazione dell’immortalità dell’anima partecipata agli iniziati al culto di Dioniso durante i riti connessi, si presenterebbe “concorrenziale” a quella cristiana, una concorrenza che, almeno in parte, spiegherebbe (e ha variamente spiegato nel corso dei secoli) il motivo dell’astio feroce dei primi Padri della Chiesa nei confronti dei riti religiosi tardoantichi. Tra le interpretazioni “pagane” del dionisiaco che quei primi Padri della Chiesa si trovarono a combattere, una in particolare venne ritenuta estremamente perniciosa e perciò respinta nel modo più netto: il culto di un Dio che muore, e che si ripresenta ai suoi fedeli in momenti particolari dell’anno (molti dei miti di Dioniso hanno questo tipo narrazione), avrebbe rappresentato una sorta di prefigurazione del mistero cristiano stesso, dell’avvento del Salvatore, della sua morte e risurrezione. A questa lettura, che aveva oggettivamente aspetti non del tutto peregrini e dunque si presentava tanto più capace di “turbare” l’animo dei fedeli, si sommava l’idea, configuratasi successivamente in un particolare paradigma
che a buon diritto potremmo definire gnostico, secondo il quale la sapienza che proviene da Oriente avrebbe trovato nella figura prima di Dioniso e successivamente di Cristo due stazioni rivelative dell’originaria verità con la V maiuscola, trasmessa poi da un apposito linguaggio simbolico del quale miti, culti e riti costituirebbero l’apparato sostanziale.
Verso la fine del Settecento, in ambito culturale in special modo germanico, l’attenzione degli studiosi di filologia, di storia, di archeologia e di estetica filosofica si (ri)accende intorno alla questione del dionisiaco come manifestazione della “grecità” e del suo influsso su quello che potremmo chiamare il “canone occidentale”. Forma, proporzione, ordine e simmetria, concepiti fino ad allora come valori indiscussi e indiscutibili della civiltà occidentale, tornano in discussione sotto la spinta di un’interpretazione della grecità (e dunque anche del dionisiaco) come orizzonte soltanto apparentemente “pacificato” dalla ricerca e nell’applicazione a ogni livello di quei valori. Il rinnovamento degli studi sulla vera natura della grecità, infatti, proprio per via della riconsiderazione del dionisiaco, insinuò il dubbio che, sotterraneamente, la grecità avesse avuto non soltanto come “avversaria” la spinta distruttiva del dionisiaco, ma che, in realtà, esso fosse ben più antico del suo gemello apollineo, e che, addirittura, provenisse da Oriente, dall’Asia minore. Si apriva un quadro culturale completamente nuovo, e tutte le migliori menti dell’epoca vi presero parte (si parla qui di personalità del calibro di Herder, dei fratelli Schlegel, di Hölderlin, di Creuzer, di Schelling, di Hegel fino a Bachofen, a Wagner e allo stesso Nietzsche; il quale, nel 1872 chiude il cerchio di questo straordinario percorso ermeneutico con la Nascita della tragedia opera che, dunque, non tanto inaugura, come spesso ancora ingenuamente si sente dire, quanto piuttosto conclude). Tra le tante domande che ne seguirono, e che non poco incisero sulla vita stessa delle singole discipline accademiche, ne scegliamo una soltanto: il “dionisiaco”, come forza de-formante dell’esperienza umana e religiosa (quella forza che ad esempio diventa preminente nelle sue interpretazioni francesi e postmoderne), in che misura si riflette sulla vita umana? E poi: davvero l’arte, come ultima e resistente “forma”, è in grado di offrire un argine produttivo a quell’impeto stravolgente che il dionisiaco sembra a tutti gli effetti rappresentare (si pensi qui allo “sbranare” la selvaggina come metafora dell’addentare la vita)? L’intreccio di questioni si apprestava a diventare un labirinto dal quale nessuno mai più sarebbe uscito indenne, finché appunto Nietzsche non decise di superare ogni compromesso e, in prima istanza (1872), di individuare nel dionisiaco la forza oscura, sottesa all’esistenza e condotta alla chiarezza della conoscenza, che i greci avevano artisticamente messo in forma (nel nome di Apollo) nelle loro opere migliori, chiamate a fungere da eterno modello; successivamente, abbandonando il piano schopenhaueriano e wagneriano sul quale si era fin lì mosso e che gli aveva permesso di identificare il dionisiaco con l’oscura e “sorda” volontà di vivere e la musica con l’origine della tragedia, Nietzsche indica nel divenire, come forza cosmica che trascina ogni esistenza, la forza dionisiaca come forza mondana del tutto immanente che abbatte ogni distinzione fra mondo vero e mondo falso, ogni primato metafisico. Il dionisiaco per lui si configura come sforzo e tensione sia dell’esistenza in generale (l’eterno ritorno: norma ed esito) sia dell’essere umano in particolare (e qui prende forma, sempre artisticamente ma priva di riferimenti “estetici” tradizionali, la volontà di potenza).
In un solo colpo, contrapponendo Dioniso a Cristo, l’immanenza radicale a una trascendenza altrettanto radicale, Nietzsche aveva spazzato via sia la tentazione di far provenire Dioniso da un Oriente religiosamente e spiritualmente superiore all’Occidente (e alla sua inevitabile decadenza), sia l’immagine, dettata da una lettura che possiamo definire vagamente gnostico-romantica, di Cristo come successore di Dioniso, una lettura, quest’ultima, che aveva accreditato i Misteri dionisiaci come momento storicamente precedente al cristianesimo nell’ambito della storia della Rivelazione, in un percorso che aveva trasformato la promessa dell’immortalità da messaggio esoterico per iniziati (e qui torniamo alla questione di partenza: il possibile significato dei Misteri dionisiaci) a contenuto essoterico destinato all’umanità tutta. In entrambi i casi, la fede contava più delle opere, ed è questo un aspetto che chi si interessa del ruolo del protestantesimo nella storia europea dovrebbe forse sempre tener presente. Alle spalle della riscoperta ottocentesca della grecità come eccezione nella storia del mondo in generale, e dell’Europa in particolare, si staglia l’eredità del protestantesimo come nuovo inizio germanico della storia, esattamente come la riscoperta dell’eccezionalità greca aveva rappresentato un nuovo inizio nell’autocomprensione della storia veicolata dalle discipline storicistiche. E Bachofen, l’autore del Mutterrecht (1861), dell’ipotesi cioè dell’esistenza di un’antichissima, originaria condizione matriarcale dell’esistenza umana, attraverso la quale ogni ceppo umano sarebbe dovuto passare per giungere infine al patriarcato (e dunque alla Rivelazione cristiana), era appunto un protestante di rigida osservanza. Il ruolo di Bachofen nella storia del fenomeno dionisiaco è fondamentale e dunque non possiamo prescinderne in questa nostra breve e stilizzata ricostruzione. Secondo Bachofen, che motiva tale esito ermeneutico ricorrendo all’esame di miti e simboli tratti soprattutto dal mondo grecoromano e da fonti che potremmo in senso ampio chiamare “alessandrine”, Dioniso è portatore di un molteplice significato, laddove invece Apollo lo avrebbe ben più unitario e riconoscibile (avvedutezza, serenità, ragionamento e così via, secondo la tradizionale vulgata). La religione dionisiaca, secondo Bachofen, è sia sistematicamente connessa ai culti misterici come culti della vegetazione e genericamente agricoli, alla rinascita che segue la scomparsa e che dunque prelude e accenna all’intuizione della permanenza, dell’immortalità oltre il tempo, anche se in una dimensione circolare della temporalità, sia ha un significato simbolico- lunare che connota senz’altro la dimensione artistica della religiosità. La dionisiaca è una religione sensibile, che non casualmente, seguendo anche le tendenze del suo tempo, Bachofen ricollega direttamente alla vita femminile, il che spiegherebbe a suo dire, tra l’altro, la vicinanza strettissima di Dioniso con “la donna”, con l’elemento femminile e con l’arte intesa come zona sensibile dell’esistenza. Non Apollo, dunque, conclude Bachofen, ma Cristo, e ancor più esplicitamente Cristo collegato all’Impero romano e dunque al diritto, è sia l’argine al Caos dionisiaco sia il senso dell’intera storia dell’umanità.
Nel 1933 Otto legge il fenomeno del dionisiaco in maniera ulteriormente originale, mostrandone il carattere tragicamente e nietzscheanamente immanente, senza tuttavia rinunciare al suo rapporto una forma di trascendenza “allusiva”, eccezionale proprio come la grecità è per Otto (come già per Nietzsche) un’eccezione straordinaria nella vita e nel destino dell’umanità tutta. A essere presentata nei Misteri non sarebbe allora tanto l’immortalità individuale quanto l’indistruttibilità della vita in assoluto. Anche per questo Otto insiste costantemente nel suo studio sul carattere autoctono del Dioniso greco: se infatti Dioniso provenisse da Oriente cadrebbe immediatamente il suo aspetto eccezionale così come il destino stesso dell’eccezionalità greca. Nel 1967 Karl Kerényi, nella Premessa al suo Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, si chiede a ragione se “i Greci hanno mai pensato sul loro Dioniso pensieri come quelli di Otto o come quelli qui [ nel suo libro cioè] espressi?”. Una simile domanda, oggigiorno, potremmo porci nei confronti del ritrovamento da cui queste riflessioni hanno preso le mosse, una scoperta tanto sensazionale e sfolgorante quanto enigmatica. L’esperienza vissuta di coloro che dimoravano nella Casa del Tiaso ci resterà però ignota, ed è bene che sia così.
Walter Friedrich Otto pubblica “Dioniso. Mito e culto” nel ’33, uno studio ancora utile per inquadrare le “scene” scoperte dagli archeologi
Dioniso non è “uno” ma “molti”. I suoi miti raccontano vicende differenti a seconda delle zone della Grecia, dell’Asia minore, persino fino in India Nietzscheelafinediognidistinzione fra mondo vero e mondo falso,
Bachofen e l’ipotesi di un’originaria condizione matriarcale dell’umanità Otto non rinuncia a una forma di trascendenza “allusiva”, eccezionale proprio come la grecità è un’eccezione nel destino dell’umanità tutta