
Un tremendo desiderio di assoluto
20 Luglio 2025
Uzbekistan, il nuovo sol dell’avvenire
20 Luglio 2025IL DIALOGO
Il grande antropologo riteneva giusto che il mondo contadino sparisse. E ha condizionato gli studi successivi. Due colleghi ribaltano la prospettiva puntando su saperi tradizionali, giovani e donne Nel nome dell’idea di “restanza”
Franco La Cecla: « La restanza (Einaudi, 2022), Il senso dei luoghi ( Donzelli, 2022) e più recentemente Il risveglio del drago (Donzelli, 2024) hanno fatto conoscere a un ampio pubblico la questione dell’abbandono dei luoghi, ma anche il valore di chi si prodiga per restarvi. Lo hai fatto nel modo sapiente di una disciplina, l’antropologia, che è per eccellenza basata sul fermarsi in un luogo per potere comprendere la comunità che vi abita. Ti chiedo cosa pensi non solo del patrimonio che stiamo perdendo – paesi, case, risorse e difesa del suolo – ma anche del patrimonio culturale che davvero in pochi hanno cercato di cogliere nell’incredibile mondo degli “indigeni” del nostro Paese».
Vito Teti: «Quello che ho capito, o almeno credo, lo devo alle donne, ai contadini, ai braccianti, agli emigrati, ai pastori, ai pescatori con cui sono cresciuto. Più dei libri di antropologia, per me sono state importanti quelle “donne biblioteche” – le nonne, le mamme, i maestri – questa gente che era portatrice e custode di memorie, saperi, stili di vita, di modalità di stare nel mondo e con la “natura” e gli animali. Questo patrimonio, a partire dagli anni Sessanta – con il boom economico, l’erosione dei territori, la modernizzazione violenta e selvaggia – sarebbe stato cancellato, ignorato, ridotto a “superstizione”, a elementi arcaici a cui bisognava dire addio come ai fantasmi del passato. Eppure tutta questa sistematica opera di demolizione di una civiltà millenaria avveniva senza avere in mente un altro progetto, un’idea di futuro – davvero paradossale per le élites che parlavano delle magnifiche sorti progressive in cui stavamo entrando – e nemmeno del presente.».
FLC: «Sappiamo che è una condanna avvenuta in nome di una idea di progresso che ha completamente adombrato l’Italia agricola, montanara, marinara. Un giudizio da parte del pensiero progressista, dei partiti operaisti, e di una larga fascia di intellettuali. Che il mondo contadino dovesse sparire non era poi cosa così ovvia».
VT: «Aver descritto la montagna e le aree interne come luoghi improduttivi, arcaici, fuori dal mondo e da abbandonare è stata una grave responsabilità dei partiti di sinistra, operaisti e urbanocentrici. Tra le poche intelligenze che possiamo salvare, perché ci avevano messo in guardia, annovero Alvaro e, soprattutto, Pasolini. L’ab-bandono del mondo contadino – un mondo legato alla terra, alla produzione agricola, al ritmo delle stagioni, al legame con gli animali – non era inevitabile, ma è stato una scelta ideologica e politica. Nei luoghi in cui i contadini occupavano le terre che, a ragione, consideravano loro, la loro ragione d’essere, i poliziotti di Scelba (come a Melissa) uccidevano uomini, donne, bambini – e persino gli animali – che partecipavano a quelle manifestazioni pacifiche e gioiose, direi carnevalesche e religiose, dato che le persone portavano nelle terre i loro santi. Anche dopo le alluvioni, la terra da coltivare, la volontà di restare nei luoghi in cui erano nati e vissuti, seppur con difficoltà, erano rivendicate da tutte le persone dei paesi colpiti e devastati. Invece di una possibile ricostruzione in loco, le sentinelle della modernità – in controtendenza Umberto Zanotti Bianco – proponevano la ricostruzione lungo le coste, la nascita di paesi doppi, veri e propri non luoghi senza anima. E De Gasperi, in visita nei paesi alluvionati, a chi chiedeva terra, pane, lavoro, rispondeva invitando ad apprendere le lingue e ad andare nelle fabbriche del Nord Italia e dell’Europa del carbone e delle miniere. Interi paesi chiudevano, si spopolavano. Era soltanto l’inizio di una desertificazione e dello spopolamento delle aree interne. Gli slogan che anch’io ripetevo con convinzione “Sud e Nord uniti nella lotta”, “Operai e contadini uniti nella lotta” – fossero in fondo la versione di sinistra di posizioni che, di fatto, consideravano marginale e inutile il Sud, anche se ne volevano le persone e la manodopera. La fine del fordismo, della fabbrica, del mondo operaio ha lentamente fatto capire che quello che veniva descritto come un Paradiso era piuttosto un Inferno e che l’Inferno sarebbe potuto diventare, con altre politiche, un Paradiso, una terra vivibile. Del resto il ritorno alla terra di molti, un diverso rapporto con la natura, la riscoperta della montagna anche come area produttiva mostra quanto fosse ideologica la visione di un Sud e delle campagne improduttive, irrecuperabili, arretrate».
FLC: «Torniamo alla nostra disciplina. Mi sono formato con i meridionalisti di Vibo Valentia e ho imparato da loro che il Sud doveva riscattarsi dalla distrazione e dallo sfruttamento che l’Italia “industriale” ne ha voluto fare. Una distrazione che ha anche coinvolto e reso miope coloro – antropologi, sociologi, filosofi che avrebbero dovuto lavorare nel Sud per salvare dall’oblio l’incredibile costruzione culturale che esso ha rappresentato per il Paese intero. Non si è voluto, non ci sono state le risorse, la volontà, l’attenzione accademica, non si è formata una classe di giovani operatori in questo senso».
VT: «La penso come te. Anch’io sono stato vicino ai “Quaderni Calabresi”, con cui collaboravo, e molti colleghi erano antropologi come Lombardi Satriani e Mariano Meligrana che, liquidati da molta antropologia come nostalgici e passatisti, in realtà avevano ragione nel criticare la modernità e continuavano a raccogliere memorie e saperi popolari. Qualcuno con disprezzo ci definiva “zampognari”; ma grazie a quelle etnografie, alle indagini sui riti, le feste, la morte, gli aspetti oppositivi del folklore, allo studio e alla raccolta di canti e musiche del Carnevale, all’attenzione per un neo-folklore, abbiamo oggi un patrimonio importante. Possiamo ripensare diversamente il passato e comprendere le strade errate della modernizzazione, disponiamo di archivi utili per riflettere su un diverso modello di sviluppo che valorizzi la terra, i legami tra le persone, gli insegnamenti che arrivano dal mondo contadino, il senso della sobrietà, la fragilità dell’essere umano, la necessità di rispettare la “natura”, la consapevolezza che non esiste un progresso illimitato. Dai meridionalisti vibonesi, come tu li chiami, per cui ho avuto grande stima, mi allontanava, però, l’idea di un passato borbonico da recuperare, il mito di un “buon tempo antico” che in realtà non è mai esistito. Il neoborbonismo odierno, infatti, impedisce l’affermarsi di un meridionalismo nuovo, critico, oppositivo, in prima linea nel resistere allo spopolamento ».
FLC: «Una domanda molto indiscreta. Sono convinto che la fine dell’antropologia in Italia dati dagli ultimi lavori di Ernesto De Martino. La mia idea è che De Martino abbia aperto e chiuso allo stesso tempo lo spazio dell’antropologia. È stato un osservatore geniale, ma profondamente imbevuto di uno spirito progressista che gli faceva vedere il mondo contadino come solo passato (il tuo lavoro sulla nostalgia mi fa pensare che fosse la sua cifra principale). So di attaccare una vacca sacra, ma non è una coincidenza che dopo di lui ci sia stata una rimozione totale dell’attenzione al Sud».
VT: «De Martino sembra intoccabile, ma possiamo invece valorizzarlo storicizzando la sua opera, prenderne le distanze dove serve, andare oltre, proprio riconoscendo la sua genialità, l’apertura alla filosofia e ad altre discipline, la pratica di fare ricerca al Sud, anche se probabilmente si portava dentro – pur con fatica – il demone del progresso, l’idea di un mondo superstizioso da abbandonare per sposare la scienza e la razionalità che ci avrebbero portato fuori dalla miseria, dalle paure. Ricordo quando – citando il brano famoso su “Il campanile di Marcellinara” e il contadino colpito da “angoscia territoriale” – scrissi che il Sud aveva una lunga storia di mobilità, di saperi, di scambi, per cui il contadino che si angosciava perché non vedeva il campanile del paese mi sembrava una bella metafora, un’immagine utile per descrivere lo “spaesamento” e lo “sradicamento”, ma poco fondata storicamente come tratto culturale di una popolazione. Qualcuno mi disse che avevo il coraggio di criticare De Martino, il quale, peraltro, sbagliava anche il nome del paese e doveva necessariamente riferirsi a Settingiano e non a Marcellinara. Credo che sia necessario ripensare De Martino, pur senza sminuirne la grandezza. Allo stesso modo, occorre evitare di descrivere il mondo contadino attraverso le categorie della modernità o mediante un etnocentrismo che, comunque, emergeva anche quando c’era – come in De Martino – una sincera adesione al mondo dei poveri. Nonostante la sua partecipazione emotiva, l’onestà intellettuale e la passione con cui si avvicinava a un mondo che stava scomparendo, De Martino riteneva comunque giusto che quel mondo sparisse. Ecco la contraddizione! Sarei meno drastico sul fatto che il Sud non sia più stato studiato dopo De Martino. Certo la sua visione ha orientato le ricerche, ma molti studiosi hanno indagato aspetti importanti delle culture del Sud.
FLC: «Tu sei molto attento ai “ritorni” e al modo con cui i giovani vorrebbero tornare. Vi vedo una grande speranza e un’occasione straordinaria per il lavoro antropologico. I luoghi, come spieghi, sono stratificazioni umane di rapporti di appartenenza. Se nessuno racconta ai giovani cosa è stato e cosa è il mondo contadino ogni ritorno sa di cancellazione del passato»
VT: «Poni un giustissimo problema: quello della continuità del tempo, della memoria. Circa settant’anni di abbandono hanno modificato il modo di guardare il mondo, le forme della trasmissione della cultura e del sapere. All’appello mancano nei paesi almeno due generazioni che sono andate via e che, però – ironia della storia – sono rimaste legate al mondo di origine, tornano, o almeno alcuni vorrebbero ritornare. Devo dire che la mia “restanza”, oltre alla sua valenza sociale e politica, ha dato un nome – anche al di là delle mie intenzioni – a una costellazione di sentimenti, lacerazioni, contraddizioni, emozioni che riguardano – come mi viene scritto in moltissime lettere – proprio le persone emigrate, i figli e nipoti, che sentono il richiamo delle origini, l’insoddisfazione per il mondo in cui vivono, vorrebbero tornare e conoscere il mondo dei padri. È un’occasione da non sprecare, di cui si dovrebbero fare carico i “restanti”, soprattutto le élites, gli studiosi, gli antropologi. Vedo un processo aperto a diversi scenari e nemmeno stavolta c’è una scelta obbligata: bisogna capire cosa e come, per chi si sceglie. Da un lato, paesi vuoti, deserti, tristi, apatici, dall’altro gruppi, associazioni che resistono, praticano una “restanza” mobile, dinamica, antagonista, vogliono cambiare le cose, creano musei, piccole biblioteche, fanno ricerca. A costoro bisognerebbe riconoscere il diritto di restare, vivere nella terra in cui sono nati, realizzare nei loro paesi con i mestieri, i saperi, le culture che hanno acquisito. Anche in paesi vuoti succedono cose belle: ragazze e ragazzi che fanno teatro, musica, tengono scuole di cucina, praticano agricoltura biologica, anche senza mostrarsi e senza contare sul sostegno della politica (non sopportano mafie e clientele). Certo servono strade, ospedali, scuole, uffici, negozi, ma anche grandi progetti di messa in sicurezza del territorio, di cura dei luoghi. Darei uno stipendio ai “guardiani” e ai “custodi del paese”, che restano perché il paese non chiuda, che si occupino dei boschi e delle acque, degli anziani e degli ammalati, di quelli che tornano o che arrivano. Ben venga lo sguardo da fuori, ma la responsabilità è soprattutto di chi resta. Bisogna capire cosa vogliono, cosa pensano, come si rappresentano. Gli antropologi potrebbero, dovrebbero, svolgere un ruolo decisivo. Nel salvare i luoghi, potrebbero privilegiare didattica, insegnamento, dialogo con gli studenti, fare ricerche che abbiano un senso, anche pratico, nel tempo presente, essere “militanti”, senza confondere antropologia e politica, ma anche facendo politica, in maniera eretica e libera. Negli ultimi decenni, invecchiando, ormai sempre più fuori da appartenenze accademiche, avevo avuto l’impressione che qualcosa stesse cambiando. Invece, con piccoli ritorni nel mondo accademico, ho visto come ancora oggi si ripropongano antagonismi, non sulle teorie e sulle interpretazioni delle culture, ma su interessi pratici, sulla gestione del potere. Dobbiamo sperare che una nuova generazione di antropologi “locali”, capaci di guardare e vedere lontano. Abbiamo bisogno di antropologi che sappiano ascoltare e raccontare storie locali che parlino al mondo, che coinvolgano scrittori, artisti, registi, perché ogni storia ben raccontata, come dice un antropologo “indigeno”, può ritardare la fine del mondo, o almeno farci vivere meglio.