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30 Ottobre 2022Noam Chomsky
di Carlo Pizzati
Il filosofo radicale, linguista e attivista spiega perché il “ brandalism” va bene ma non basta “ Per farsi ascoltare dal potere ci si deve esporre in prima persona”
Ci siamo parlati 24 anni fa, in occasione dei bombardamenti in Kosovo, e quindi Noam Chomsky, con quel suo viso affilato incorniciato da una grande barba da antico saggio, alla fine della chiacchierata, saluta con il caratteristico sense of humor: «Spero che riusciremo a parlarci di nuovo prima che passino altri 24 anni!». Oggi di anni il filosofo, linguista e militante americano ne ha 93: vita di un intellettuale con la memoria altrettanto lunga.
«Sono abbastanza vecchio per ricordarmi gli anni ’30» sbotta «posso assicurare che per uno della mia età è davvero spiacevole vedere l’Italia in mano a chi è stata una seguace di Mussolini. Ma non penso proprio che il potere economico in Italia permetterà un revival del vero fascismo. Verrà contenuto dalle forze economiche che controllano la società. Però è mostruoso che l’Italia, Paese che ha causato un genocidio in Libia, lasci i migranti affogare nei mari delle sue coste: è inspiegabilmente scioccante».
Come protestare oggi? Alcuni delle nuove generazioni s’ingegnano con tecniche contemporanee. Poiché l’esperienza del reale viene traslata sempre più su uno schermo, dalle piazze la protesta si riversa nel digitale. Come gli hacker che penetrano nei cartelloni pubblicitari elettronici con il “vandalismo creativo”. È il brandalism, che accusa i grandi marchi di contribuire al riscaldamento globale nel contesto del sub vertising, pubblicità sovversiva contro i messaggi del marketing, per finire con i purè di patate su un Monet in Germania o sul vetro che protegge i girasoli di Van Gogh imbrattato a Londra, con i ragazzi che si incollano le mani ai muri per gridare: il pianeta è in fiamme.
Come vede Noam Chomsky il cambiamento nelle tecniche di protesta?
«Prendere in giro i brand nei social media…va bene, ma tutto ciò ha davvero un impatto limitato. È come parlottare gli uni con gli altri. Il grande pubblico non presta attenzione alla presa in giro dei brand online. Le vere proteste non sono cambiate davvero. Prendere in giro i brand o danneggiare le opere d’arte sono interventi marginali, per richiamare l’attenzione. Molti giovani hanno raggiunto un comprensibile livello di disperazione sul clima. Non sarò vivo per vedere i risultati del disastro ambientale, loro sì. Anche se non approvo queste tattiche specifiche, le capisco.
Però le azioni più impattanti usano il vecchio metodo. Per esempio Extinction Rebellion, o il movimento Sunrise, che protestano in piazza.
Anche nei Paesi totalitari come l’Iran vediamo un movimento che ispira il mondo, giovani donne che protestano ovunque, nonostante le forze repressive. La protesta di massa funziona. Ha funzionato 40 anni fa in Europa e in America contro le armi nucleari a corto raggio, come i Pershing. Il trattato Reagan-Gorbaciov del 1987 fu firmato sotto grandi pressioni dalle proteste di massa. Ciò che accade nei social media ha ancora un impatto periferico. Le cose cambiano solo quando la gente si espone in prima persona».
Quindi non c’è nulla che si sostituisca al buon vecchio coraggio di affrontare i manganelli della polizia?
«Sì. Pensiamo all’inizio della fase femminista degli anni Sessanta. Anche lì era un rifiuto di un brand. E c’erano proteste che a volte erano offensive, a volte efficaci. Non c’erano i social media, quindi si facevano nelle piazze. Ma non ci sono molti nuovi metodi con cui resistere alla repressione del potere concentrato sui pochi».
Solo riempiendo le piazze si ha impatto sulla politica.
«Ci sono tantissimi esempi. Le guerre di Reagan in Centroamerica, quando cercò di replicare un Vietnam. Dovette cambiare rotta perché c’erano troppo proteste popolari. Oppure il movimento Occupy. Troppo facile dire che ha fallito, è stato un successo incredibile. Ha portato al centro dell’attenzione l’ineguaglianza radicale causata dalla guerra di classe del neoliberismo, che prima non si discuteva mai ed ora è un tema centrale. Ed è interessante quanto preoccupato l’establishment sia dalle proteste. Basta leggere l’ultima parte dei Pentagon Papers, cosa che pochi fanno. Il Presidente americano Johnson voleva inviare altre truppe in Vietnam dopo l’offensiva Tet, ma la leadership militare si oppose dicendo: se mandi altri soldati in Vietnam dovremmo averne altri nelle strade d’America per fermare le proteste civili. Il potere non vuole fartelo credere, ma è così.
Il potere vuole che tu stia tranquillo, calmo, passivo, pacifico e conformista. Se non ti comporti così, in Paesi repressivi come l’Iran si usa la violenza, in Paesi più liberi come gli Stati Uniti si usano altri metodi, come squalificare il laburista Corbyn nel Regno Unito con false accuse di antisemitismo o marginalizzare nei media americani il messaggio di Bernie Sanders. La gente deve restare passiva, stare a casa, e non uscire per la strada a difendere i propri interessi. Questo è ciò che vuole il potere. Solo scendendo in massa nelle piazze si cambiano le cose».
Combattere per difendere i diritti civili, come il diritto all’aborto ora sotto minaccia, o per fermare il riscaldamento globale?
«Sono temi collegati, parte di un lungo tentativo di distrarre l’attenzione da cruciali temi socioeconomici. Si polarizza il dibattito attorno a tematiche come il controllo delle armi e l’aborto, così non ci si accorge che vengono rubati 50 mila miliardi di dollari accumulati dall’1 % della popolazione. La priorità oggi è la sopravvivenza della società organizzata che è sottoposta a un attacco molto severo. I ricchi hanno devastato l’ambiente. Ora vogliono che siano altri a fare qualcosa mentre loro continuano a massacrarlo.
Altro che social media e brand, qui bisogna tornare nelle piazze per fermarli. I giovani questo lo sanno».