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6 Novembre 2022Roma poco contemporanea. A Firenze il nuovo Rinascimento
6 Novembre 2022Il dibattito Viaggio intorno all’evoluzione della parola «degrado», che prima evocava monumenti deteriorati e ora si applica a una Firenze che per i turisti ha abdicato al ruolo di aggregazione sociale
di Francesco Guerrieri
La «Città d’Arte» è il punto di massima concentrazione dei problemi di tutela e conservazione dei beni culturali e ambientali. Locuzione circoscritta e comprensibile fino ad alcuni anni fa, è oggi in via di superamento per l’accresciuta coscienza della diffusione dei beni culturali (prima riconosciuti nei soli monumenti, oggi numerosissimi in ragione dell’estensione ai beni materiali e immateriali). È l’intero territorio che detiene e conserva il patrimonio culturale. E in ciò, il nostro Paese e Firenze in particolare, hanno svolto e potrebbero ancora svolgere un ruolo primario, tanto più che, in questi ultimi giorni si è tornati a parlare dell’ istituzione di un «European Research Infrastructure for Heritage»: esattamente quello che fu prospettato negli anni Ottanta del secolo scorso, dopo la preziosa esperienza maturata con l’alluvione del 1966; proprio Firenze, per le sue iniziative e la sua «tecnologizzazione» fu riconosciuta come il luogo del passaggio del restauro da arte a scienza.
Umberto Baldini (1921– 2006) ne fu il protagonista. Entrato nell’amministrazione delle Belle Arti nel ’49 dopo essersi laureato in Storia dell’Arte con Mario Salmi, diresse l’Opificio delle Pietre Dure (e Laboratori di Restauro) dal 1975, col nuovo Ministero dei Beni Culturali fondato da Giovanni Spadolini. Sull’esperienza internazionale maturata con l’alluvione, organizzò alla Fortezza da Basso il più avanzato laboratorio diagnostico e operativo di restauro per opere pittoriche e scultoree; chiamato poi a dirigere l’Istituto Centrale del Restauro (1983–87), fu responsabile del settore Beni Culturali del Consiglio Nazionale delle Ricerche. E strinse subito il primo patto di collaborazione con Franco Piacenti, fondatore e direttore del «Centro Studi sulle cause di deperimento e sui metodi di conservazione delle opere d’arte» (1974). Piacenti, allievo di Giulio Natta (Nobel per la chimica), aveva lavorato al Paul Getty Museum e alla North Carolina State Univeristy, e può considerarsi (dopo i primi esperimenti di Piero Sanpaolesi) il primo chimico-fisico a occuparsi in laboratorio di prove concrete di conservazione di materiali lapidei monumentali. Il primo laboratorio di Piacenti, in cui ebbi l’onore di partecipare al consiglio Scientifico, fu in via Alfani a Firenze, in contiguità con l’Opificio.
L’idea di «degrado» applicata alla città d’arte, è relativamente recente anche se ha avuto rapido successo. Nel 1998, usciva il libro, riassuntivo, intitolato Il degrado della città d’arte . Il concetto si è prima applicato allea sola «materia costitutiva dell’opera d’arte». Si degradano i materiali delle opere d’arte: a Firenze la pietra forte che costituisce, con la pietra serena, gran parte del patrimonio monumentale, dal Medioevo al Settecento. Si degradano i bronzi e i marmi delle statue, cancellando progressivamente volto e qualità dello spazio urbano, concorrendo al degrado urbano e ambientale.
Né è da trascurare il crescente conflitto fra amministrazioni pubbliche e soprintendenze che ha caratterizzato quest’ultima stagione. Si è arrivati a mettere in dubbio la funzione istituzionale della tutela che, dalla fine dell’Ottocento è stata una primazia del nostro Paese, con la stima e non pochi tentativi di imitazione per il mondo. Da Ruggero Bonghi a Giovanni Spadolini, dalle fondamentali leggi di tutela del 1939 al Codice dei Beni Culturali del 2004, da una ricchezza di studiosi e intellettuali come Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan, Mario Salmi e De Angelis d’Ossat, è un’intera cultura della tutela del patrimonio artistico e ambientale che si vorrebbe rimettere in discussione, bollandola rozzamente come impedimento burocratico. Viviamo un’assurda rivincita degli enti locali contro ciò che qualche tempo fa, con a capo Alberto Asor Rosa, si intese delegittimare per l’eccessiva permissività a edificare (si ricordi il caso di Monticchiello). Ma non è certo con la conflittualità che si può ricomporre questa vertenza istituzionale, semmai col rispetto reciproco e l’innalzamento culturale dei funzionari preposti alla funzione. Da troppo tempo non si registrano occasioni di confronto su questa materia, consueti fino a qualche tempo fa, anche in sinergia con i dipartimenti universitari di settore. Noi non abbiamo ancora scritto, come i francesi, una Histoire du vandalisme per le nostre città d’arte e il nostro paesaggio, semmai, abbiamo appena aperto gli occhi sulla stratificazione dei problemi che configurano uno degli aspetti del degrado, sul versante urbano. Sappiamo come il mutamento della funzioni residenziali e commerciali e artigianali (con la progressiva espulsione delle attività più deboli), la densificazione e la saturazione delle aste turistiche, il depauperamento della «vita di relazione» e l’impossibilità di vivere il centro storico, stiano spingendo verso un preoccupante odio verso la città d’arte. Occorre dunque impegnarsi per la ricostruzione di un tessuto sociale, operando con strumenti di educazione e consenso, creando spazi ed eventi aggregativi, non effimeri e festaioli per i grandi numeri, ma di confronto e socializzazione realistica. Non è facile indicare terapie: ma proviamo ad aprire a una riflessione, evitando proclami e accuse demagogiche. Proviamo a misurarci su ciò che resta del nostro potenziale umanistico in questa sfida contro il naufragio che incombe. Con gli strumenti della cultura.
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