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27 Novembre 2022di Gino Castaldo
Continuando a scavare, cesellare, riempire buchi nella densità maestosa e commovente della vita di Fabrizio De André, Guido Harari ha ripreso in mano il suo splendido libro di immagini e parole intitolato Una goccia di splendore, che era fuori catalogo da anni, ripubblicandolo con nuovi materiali, foto, manoscritti tratti dall’archivio della Fondazione nata nel nome del cantautore.«C’era il desiderio che continuasse» spiega Harari, «ci sono tante cose in più, come il manoscritto de La ballata del Michè,foto scovate nella rivista universitaria, con gli spettacolini a cui partecipava con altri musicisti pseudo country, un nuovo capitolo, opere d’arte dedicate ». Sfogliare il libro è come un’immersione profonda, avvolgente, un tuffo nella scabrosa bellezza cantata da Faber.
La frase del titolo (il libro esce il 29) è ripresa da Smisurata preghiera,l’ultima canzone dell’ultimo disco del cantautore, ed è proprio quell’idea di splendore poetico che fa pensare alla straordinaria continuità dell’immagine di De André.
Come spiega la costante presenza della sua arte nel tempo?
«Di fatto si è creato un culto dopo la sua scomparsa che non accenna a diminuire, si è visto anche dalla mostra che fu organizzata a Genova dove sono passati 300.000 visitatori, e poi dai social, Fabrizio è onnipresente, è un punto fermo.
Dopo la prima versione del libro,quasi come fossero stati degli spin-off ho realizzato quelli su Gaber e Pasolini, perché li lega il fatto di essere stati maestri del pensiero, o quanto neno di vita, mi viene in mente Gaber quando diceva “c’era una volta il pensiero…”.
E lo diceva molti anni fa, chissà cosa avrebbe detto oggi…
«Ma è proprio questo il punto. Sono personalità percepite in modo così forte, perché le questioni che affrontavano non sono estinte, anzi, tutti i temi per i quali si sono battuti, sono sempre più minacciati, sono diventati molto più urgenti di prima, vedi l’ecologismo, le canzoni di una volta sembrano quasi ingenue a riascoltarle oggi. Ma il problema è non fare un’operazione nostalgica, casomai far capire cosa c’è di essenziale».
Per la completezza del racconto di una vita, in questo libro definito come un’autobiografia per immagini e parole, ci sono anche foto non sue. Non le fa un effetto strano?
«Assolutamente no, è come fare foto senza macchina fotografica. Da un certo punto ho cominciato a fare libri proprio su questa idea. Quando lavorai al libroThe beat goes on con Fernanda Pivano, sul suo archivio, lì all’inizio pensai di inserire anche le mie foto, poi mi sono sembratemisere in confronto al materiale che lei aveva accumulato negli anni.
Grazie a quella esperienza ho trovato l’antidoto alla caccia dell’attimo fuggente, mi sono liberato e ho goduto a mettere le mani sugli archivi di altri, come quello di Ettore Sotsass, e parliamo di 15.000 negativi. Nel libro di Fernanda c’era una foto famosa di una cena con Bob Dylan e Allen Ginsberg, era un momento storico a cui lei aveva partecipato, dovevano concordare una marcia importante, ma non era mai uscita una foto con lei, ho trovato i negativi, e ho capito perché, il problema è che Sotsass non aveva un grand’angolo,quindi doveva fare foto più strette, tutti non c’entravano, quindi ho ricostruito la scena con una composizione che rende giustizia alla realtà di quella cena, è stato in un certo senso come scattare una foto, mi ricordo che la Pivano era felicissima, mi diceva tutta contenta: “ ma allora c’ero davvero a quella cena”, e questa modalità mi piace sempre di più, gli anglosassoni la definirebbero ‘addicting’».
De Andrè è l’artista che ha fotografato di più in assoluto?
«È sicuramente uno di quelli che ho fotografato più volte, anche perché la sua disponibiltà era molto cortese.“Lascia perdere le foto” mi diceva, “che tanto scelgono sempre quelle sbagliate, andiamo a vedere i vitelli”, quindi in realtà era passare del tempo insieme e poi all’occorrenza tornava utile la macchina fotografica, ma non c’era mai una strategia, quindi fotografavo momenti di vita, poteva essere una foto di lui che dormiva accanto a un termosifone o si faceva tagliare i capelli da Dori, oppure in camera da letto con i suoi libri che poi erano i suoi talismani…».
In molte foto si percepisce un senso di intimità…
«Nasce dalla fiducia che lui, come altri, mi aveva accordato e la fiducia inizia quando uno si riconosce nelle foto, per esempio quella famosa vicino al termosifone, l’avevo appena conosciuto, era durante il tour con la Pfm, e lui rimase colpito. Il segreto del rapporto con una celebrità è non vivere all’ombra della sua leggenda, far capire che stai vivendo il momento presente, non riportarlo al suo passato, ogni artista è proiettato verso il futuro, e se tu sei sintonizzato su questo entri nel cerchio magico anche se sei un fotografo, ovvero un rompicoglioni…».
Qual è il ricordo più tenero che conserva di Fabrizio?
«Ricordo frasi captate quà e là tra le conversazioni, anche in mezzo ad altri, riusciva a essere sempre interessante, parlava in modo piano di cose a volte enormi. Ma se devo scegliere un ricordo speciale è quello di una notte all’Agnata, la tenuta dove viveva in Sardegna. Era in uscita il discoLe nuvole, ero lì perché mi aveva chiamato per le foto e io gli chiesi se c’era la possibilità di sentire qualcosa in anteprima, lui mi disse: non ho nastri da fartti ascoltare, ma se vuoi te le canto, e me le cantò tutte, in ordine com’erano nel disco. La cosa più stupefacente è che c’era anche il figlio Cristiano, arrivò anche lui sopreso di quella esibizione domestica, prese la chitarra e si mise a suonare col padre».