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Antonio Carioti
Sono usciti di recente due libri, La sfida delle disuguaglianze di Carlo Trigilia (il Mulino) e La mutazione di Luca Ricolfi (Rizzoli), che partono da un dato comune: la difficoltà della sinistra nel raccogliere voti tra i ceti popolari. Per approfondire la questione abbiamo messo a confronto gli autori con Stefano Ceccanti, ex parlamentare del Pd e costituzionalista dell’Università La Sapienza di Roma.
Come si spiega la perdita di voti della sinistra tra le classi più umili?
LUCA RICOLFI — Tutto comincia a partire dal 1989, con il Partito comunista che cambia nome e s’innamora del mercato. Quando l’economia entra in crisi nel 2007, le ragioni dei perdenti della globalizzazione vengono così assunte dalla destra a discapito della sinistra. Un altro fenomeno è l’aumento dell’immigrazione. I lavoratori stranieri sono molto utili per le imprese e per le famiglie (pensiamo alle badanti), ma la loro presenza ha creato gravi tensioni nelle periferie. La sinistra ha negato l’esistenza del problema, mentre la destra lo ha cavalcato conquistando vasti consensi tra i ceti più disagiati. Inoltre l’adesione acritica al politicamente corretto e alle rivendicazioni Lgbtq ha allontanato la sinistra dai ceti popolari, poiché si tratta di tematiche estranee alla loro sensibilità.
Come ha reagito la sinistra?
LUCA RICOLFI — Affermando che la destra vince perché parla alla pancia del Paese. Una diagnosi sbagliata sul piano sociologico e offensiva sul piano comunicativo: è come dire che la povera gente non sa riconoscere i suoi interessi e può essere facilmente abbindolata da una propaganda fuorviante.
CARLO TRIGILIA — Il declino della sinistra dura da un ventennio e non è solo un fenomeno italiano. È quindi utile, per capirne le cause, guardare all’estero. Nel Nord Europa, specie nei Paesi scandinavi e in Germania, la crisi è meno grave, perché la capacità della sinistra di mantenere la rappresentanza dei gruppi sociali più disagiati è stata maggiore. Ci sono quindi cause generali e una specificità particolare dell’Italia.
Vediamo le ragioni della crisi.
CARLO TRIGILIA — Innanzitutto si è ridotta la classe operaia di grande impresa, cioè il gruppo sociale, in passato molto consistente, che per le sue caratteristiche lavorative e abitative era decisamente propenso a votare per la sinistra. Sono cresciute invece le attività nei servizi a bassa qualificazione, molto frammentate, ed è quindi venuta meno la situazione di relativa omogeneità sociale che produceva l’aggregazione a sinistra dei lavoratori. Una volta le disuguaglianze erano «automobilitanti», favorivano l’azione collettiva, oggi non più. Poi sono cresciuti i costi del welfare e nel contempo i vincoli posti dall’integrazione finanziaria internazionale, il condizionamento dei mercati e dell’Unione Europea: le politiche di espansione della spesa pubblica perseguite in passato dalla sinistra sono diventate impraticabili. Infine l’estrazione sociale dei militanti e dei dirigenti della sinistra è cambiata: oggi prevale nettamente il ceto medio rispetto alla classe lavoratrice. Pesa inoltre, a livello di vertice e in maniera crescente, una cultura accademica più influenzata dal neoliberismo e più fiduciosa nel mercato.
Con quali conseguenze?
CARLO TRIGILIA — I partiti progressisti trascurano la rappresentanza delle classi più disagiate e adottano un’offerta politica che da un lato non si differenzia molto da quella della destra sul piano economico-sociale, con il ridimensionamento del welfare e la deregolazione del mercato del lavoro, e dall’altro si concentra sul terreno dei diritti civili: l’emancipazione femminile, le tematiche Lgbtq, l’immigrazione. Si rompe anche il legame con i sindacati, che viene abbandonato in nome delle politiche di «terza via». Intanto la globalizzazione fa sentire i suoi effetti, che accentuano le differenze tra garantiti e non garantiti e costringono i governi a interventi dolorosi, per esempio sulle pensioni. Il risultato è che le classi più disagiate non si sentono più rappresentate dalla sinistra e vengono attratte da un’offerta politica populista che solitamente in Europa è di nuova destra radicale, ma può avere anche connotazioni più o meno nette di sinistra, come in Spagna con Podemos e in Italia con i Cinque stelle.
Può illustrarci qualche dato?
CARLO TRIGILIA — In Italia nel giro di un ventennio il voto dei salariati per il principale partito di sinistra è calato dal 40 al 17 per cento. Il Pd nelle prime elezioni che affrontò, quelle del 2008, ottenne 12 milioni di voti; ora siamo arrivati a meno di 6 milioni, perché il calo tra i lavoratori manuali non è compensato da un crescente consenso dei ceti medi, che nel ventennio considerato passano dal 35 al 21 per cento di voto alla sinistra. Evidentemente, rispetto a un Pd che appare un succedaneo del centrodestra, preferiscono l’originale. Bisogna aggiungere però che questa situazione di crisi è meno grave in Europa per partiti come i socialisti scandinavi o la Spd tedesca, che riescono a mantenere le basi sociali tradizionali e ad aumentare la loro penetrazione tra gli addetti ai servizi.
STEFANO CECCANTI — Si tratta di vedere quale offerta politica può elaborare una sinistra di governo. Lo scopo dev’essere quello di emancipare le fasce deboli, non solo di assisterle. Un’offerta sbilanciata a favore dei diritti civili, rispetto a quelli sociali, può creare dei problemi, dato che la somma delle minoranze discriminate non fa una maggioranza. Però una legge introdotta dal centrosinistra in questo settore, quella sulle unioni civili, aveva una base di consenso ampia e oggi non viene più messa in discussione da nessuno. Sul piano sociale non è più possibile difendere il singolo posto di lavoro, bisogna tutelare la persona nei passaggi da un impiego all’altro: non mi pare che questo sia neoliberismo spinto. Se guardiamo all’estero, i laburisti britannici non hanno più vinto un’elezione dopo aver abbandonato, come era necessario, la «terza via». E se oggi sono di nuovo competitivi, è perché hanno superato la linea massimalista di Jeremy Corbyn. La stessa Spd ha vinto puntando su un leader come Olaf Scholz, che si è presentato come il migliore erede di Angela Merkel.
Però in Italia la perdita di voti del Pd tra i lavoratori è innegabile.
STEFANO CECCANTI — Un modo per porre rimedio a questa difficoltà è stare all’opposizione e cavalcare la protesta generata dai vincoli con cui il governo deve fare i conti. Ma il Pd negli ultimi anni si è trovato invece a guidare il Paese o a sostenere esecutivi tecnici, pagando il relativo prezzo. Pensiamo alla situazione del 2011, con una richiesta europea di rigore nei conti pubblici, soprattutto quelli previdenziali, che mandò in pezzi la coalizione di centrodestra, ma che anche il Pd, se fosse uscito vittorioso da elezioni anticipate, non avrebbe potuto soddisfare. Il risultato fu la nascita del governo Monti.
Quest’anno invece il Pd è giunto alle elezioni dopo aver fatto parte del governo Draghi.
STEFANO CECCANTI — Sì, e per giunta si è presentato ai cittadini senza una proposta di governo e senza un leader da candidare a Palazzo Chigi. Perché gli elettori delle fasce medio-basse avrebbero dovuto votare un partito che non aveva né un passato di opposizione, come Giorgia Meloni, né una proposta di governo? Ora credo che il Pd resterà a lungo all’opposizione, per l’intera legislatura, perché la maggioranza attuale mi pare capace di reggere: bisogna vedere se la sinistra sarà in grado di presentare agli elettori una credibile proposta di governo, sapendo che la «terza via» è superata, ma non si può neppure tornare alla seconda, alla linea tradizionale della socialdemocrazia.
CARLO TRIGILIA — Il problema infatti non è tornare all’intervento pubblico nell’economia in termini usuali. I partiti scandinavi, per esempio, hanno operato per conciliare la redistribuzione con la crescita. Si tratta di progettare un welfare che sia investimento sociale e non assistenza, di instaurare con il sindacato relazioni industriali che favoriscano la produttività, di stimolare l’innovazione fornendo alle imprese i beni pubblici di cui hanno bisogno.
LUCA RICOLFI — I casi scandinavi però sono diversi tra loro. In Svezia ha vinto la destra, in Danimarca la sinistra ha avuto successo con una politica molto restrittiva verso l’immigrazione, in Norvegia tengono le forze xenofobe. È un mondo un po’ diverso da come a volte lo immaginiamo. Poi c’è un equivoco da chiarire: di neoliberismo se n’è visto poco in Italia, anche sotto il governo di Matteo Renzi. Il peso della spesa sociale è sempre aumentato, la pressione fiscale resta tra le più alte dell’Occidente. Abbiamo un invecchiamento drammatico della popolazione, da cui deriva un peso anomalo del sistema pensionistico sui conti pubblici. Inoltre la produttività è ferma da alcuni decenni, caso unico nell’Occidente, il che contribuisce a tenere bassi i salari e rende impraticabili le politiche redistributive tipiche della sinistra. Per questo da noi la condizione dei perdenti della globalizzazione è più difficile che altrove.
E la tanto discussa «terza via»?
LUCA RICOLFI — Si basava sull’idea che il mercato fosse un elargitore di opportunità e che l’importante fosse aumentare il grado d’istruzione dei cittadini. Ma in Italia non si è fatto nulla per attuare il precetto costituzionale per cui «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti dell’istruzione» (art. 34). Le borse di studio sono poche e concesse con criteri scarsamente meritocratici. Quindi alla «terza via» in Italia è mancato un tassello fondamentale.
Su quali alleanze la sinistra dovrebbe puntare per rilanciarsi?
CARLO TRIGILIA — A mio avviso il Pd deve soprattutto riconquistare una rappresentanza autonoma dei gruppi più disagiati. Deve parlare direttamente agli elettori, proporre politiche di redistribuzione non assistenziali. La produttività stagnante è un vincolo, quindi un partito progressista, per rilanciarla, dovrebbe farsi promotore di una solida concertazione con le parti sociali. Finora però questo non si è visto, anzi con Renzi si è parlato di disintermediazione. E se il Pd non riesce a proporre una sintesi tra redistribuzione e crescita in un Paese segnato da forti disuguaglianze come l’Italia, ma preferisce delegare a Carlo Calenda e a Renzi il presidio della crescita, ai Cinque stelle il presidio della redistribuzione, temo che non andrà da nessuna parte.
Come valutare a tal proposito il percorso congressuale del Pd?
CARLO TRIGILIA — Il problema primario di quel partito è definire la sua offerta politica per poi stipulare alleanze da una posizione di forza programmatica. A questo scopo non mi sembra utile la fissazione sul modello americano delle primarie. Così il futuro congresso del Pd si gioca già ora sui nomi dei candidati e non sull’offerta politica. Il problema peraltro non riguarda solo quel partito, ma l’intero sistema. Se una forza di sinistra non riesce a dare una rappresentanza adeguata alle classi popolari e le spinge verso la protesta populista, la stessa stabilità delle istituzioni democratiche viene messa a rischio.
LUCA RICOLFI — Il fatto è che tra M5s e Pd esistono grosse differenze. I Cinque stelle sono giustizialisti, i democratici meno. Sull’immigrazione il partito di Giuseppe Conte ha una posizione problematica, non coincidente con la linea di accoglienza umanitaria e incondizionata del Pd, che a sua volta non condivide in campo economico l’assistenzialismo del M5S. Infine c’è il problema dell’ambiente, con l’opposizione dei Cinque stelle alle opere che invece il Pd giudica necessarie, a partire dai termovalorizzatori.
Quindi un’alleanza è improbabile?
LUCA RICOLFI — I risultati elettorali hanno smentito le previsioni iniziali, che vedevano i Cinque stelle in crisi nera e il Pd oltre il 20 per cento. E ora diversi sondaggi segnalano un sorpasso a favore di Conte, con un travaso di voti che mi sembra inarrestabile. Anche perché il Pd ha reagito alla sconfitta con grave ritardo, senza alcuno sforzo reale di elaborazione teorica. Io ho ascoltato nei giorni scorsi il modo in cui Stefano Bonaccini ha presentato il suo progetto e mi è parso imbarazzante nella sua genericità. A questo punto penso che sarebbe auspicabile un’evoluzione del Pd nel senso prospettato da Trigilia, ma mi sembra troppo tardi. Non vedo in quel partito una capacità di riprendere l’egemonia tra le forze di opposizione, anche perché non è abituato ad avere — alla sua sinistra — un concorrente agguerrito come il M5S. Paradossalmente al Pd converrebbe prendere atto di essere diventato un partito radicale di massa, visto che la rappresentanza dei ceti popolari è stata ormai assunta dai Cinque stelle e da Fratelli d’Italia.
STEFANO CECCANTI — I sondaggi vanno relativizzati. Dopo le elezioni del 2008, per esempio, crebbe enormemente nelle rilevazioni l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e sappiamo com’è andata a finire. A mio avviso il dibattito precongressuale ridarà visibilità al Pd e lo farà salire nei sondaggi, riportandolo al di sopra dei Cinque stelle. Del resto le primarie aperte sono l’unico modo di avviare una fase costituente, che non può svolgersi senza una competizione tra leadership. L’idea che ci si dovrebbe confrontare sui programmi e non sui nomi dei candidati non sta in piedi.
CARLO TRIGILIA — Ma anche le leadership senza idee non reggono.
STEFANO CECCANTI — La proposta di fare un congresso a tesi, senza un confronto tra leadership concorrenti, è una classica eredità della cultura unanimistica comunista, che non prevedeva trasparenti ricambi di classe dirigente. Venne avanzata anche nel 2007 da alcuni esponenti dell’ex Pci e poi accantonata. Rispetto a quella visione la grande novità del Pd sono proprio le primarie aperte, con cui ci si rivolge all’elettorato potenziale. Poi naturalmente i leader devono dimostrare di avere delle idee valide. Lo vedremo nelle prossime settimane.
E il problema delle alleanze?
STEFANO CECCANTI — Alle future elezioni politiche, per avere una proposta di governo alternativa alla destra, bisognerà mettere insieme i tre pezzi dell’opposizione: Pd, M5S e terzo polo. Ci sono notevoli distanze tra di essi sul piano dei programmi, ma vale altrettanto per i tre partiti dell’attuale coalizione di governo. Se i tre soggetti dell’opposizione attualmente non sono sommabili, è perché l’intero sistema si sta già parametrando sulle elezioni europee del 2024, quando si voterà con il proporzionale. In vista di quella prova Cinque stelle e terzo polo hanno tutto l’interesse a rimarcare ciò che li divide dal Pd. Ma alle politiche sarà necessario formare delle coalizioni e a quel punto bisognerà vedere se il Pd sarà riuscito a essere il primo partito di opposizione e a presentare una piattaforma su cui far convergere le altre due forze. Non è scontato che accada, però è l’unico scenario possibile per sfidare la destra.
Trigilia nel suo libro auspica una «democrazia negoziale», basata sulla concertazione con le parti sociali e su una legge elettorale proporzionale. Che ne pensate?
LUCA RICOLFI — Egoisticamente al Pd converrebbe, perché la sua «vocazione maggioritaria» mi pare ormai tramontata di fronte agli ultimi risultati elettorali. Io però resto convinto che il proporzionale abbia più difetti che pregi, perché in un Paese frammentato come l’Italia non produce governi stabili.
STEFANO CECCANTI — Al Pd il sistema che più converrebbe sarebbe un maggioritario a doppio turno, nel quale sarebbero gli elettori a fare la somma dei tre pezzi dell’opposizione. Senza doppio turno, il sindaco di Roma oggi non sarebbe Roberto Gualtieri. Trigilia auspica accordi stabili tra il governo e le forze sociali che sono possibili solo con governi di legislatura. Ciò è compatibile con un sistema proporzionale in un Paese dalla cultura politica diversa dalla nostra come la Germania, dove il leader del primo partito diventa automaticamente cancelliere e il governo di coalizione si forma su un programma di legislatura. Invece in Italia il proporzionale produce improbabili intese postelettorali, conflitti sulla guida del governo, maggioranze litigiose che prima o poi si rompono e portano a governi tecnici promossi dal Quirinale.
Come se ne può uscire?
STEFANO CECCANTI — Seguendo la via già percorsa per i sindaci e i presidenti di regione. Dato che i partiti sono deboli, bisogna rafforzare le istituzioni per dar vita a esecutivi di legislatura. Finora si è cercato di garantire stabilità ai governi con le leggi elettorali, ma servono anche innovazioni costituzionali per disincentivare l’instabilità.
CARLO TRIGILIA — Nessun partito di sinistra in Europa pratica le primarie aperte. E in larga prevalenza i Paesi europei hanno leggi elettorali proporzionali. Da noi invece un certo filone di critica alla partitocrazia ha prodotto il paradosso di una sinistra che auspica una democrazia maggioritaria. Eppure nei Paesi con quel sistema prevale di gran lunga il centrodestra e i livelli di disuguaglianza sociale sono superiori. Ciò avviene perché il maggioritario penalizza la rappresentanza dei gruppi disagiati: le primarie spostano il partito verso i ceti medi e lo stesso avviene alle elezioni. Del resto negli Stati Uniti, democrazia maggioritaria per eccellenza, si sta verificando una pericolosa polarizzazione politica.
Insomma, il Pd ha sbagliato tutto.
CARLO TRIGILIA — Io capisco le motivazioni di chi apprezza nella democrazia maggioritaria la stabilità dei governi e la rapidità decisionale. Ma bisogna anche interrogarsi sui vincoli che quel sistema pone alla rappresentanza dei ceti più deboli. Se il Pd non supera questo nodo della sua cultura politica, non potrà recuperare la capacità di dare voce alle istanze delle classi lavoratrici attraverso la necessaria concertazione sociale. Uno degli errori di Enrico Letta, a mio avviso, è stato non insistere per una riforma proporzionale, perché poi è dovuto andare al voto con un sistema che ha schiacciato il Pd.
LUCA RICOLFI — Ceccanti ha notato che ci sono tre sinistre e tre destre. È vero, ma mentre le differenze interne alla destra risultano negoziabili, quelle della sinistra non lo sono. Basti pensare all’acrimonia reciproca tra Renzi e Calenda da una parte, il Pd dall’altra. Ci sono contrasti anche nella destra, ma alla fine una mediazione si trova, mentre a sinistra le divisioni sono molto più profonde, perché basate su questioni di principio.
STEFANO CECCANTI — Però l’atteggiamento ideologico è delle classi dirigenti, non degli elettori. Nei riporti di voti dei ballottaggi nei comuni, al secondo turno, i tre pezzi della sinistra si sommano, come a Roma. Per questo al Pd converrebbe un sistema a doppio turno, ma ovviamente la destra si oppone, così come si sarebbe opposta a un ritorno al proporzionale, quand’anche Letta avesse spinto in quella direzione. Ma la cultura politica del Pd è fondata sulla convinzione che servono governi di legislatura, i quali si formano o in presenza di partiti forti o attraverso meccanismi istituzionali adeguati. E le primarie aperte nascono dalla necessità di mettersi in sintonia con l’elettorato potenziale in una fase in cui la partecipazione degli iscritti si è molto ridotta. Con la proporzionale avremmo governi destinati a durare un anno sotto la regia del Quirinale. Forse sbagliamo, ma su questo punto il Pd, se vuole rimanere sé stesso, non cambierà idea.
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