il racconto
mario fillioley
Certe volte in classe facciamo dei Kahoot. Non so se sia il caso di spiegare cos’è un Kahoot, perché in molti di sicuro lo conoscono, ma tanto ci vogliono dieci secondi: è un quiz che si gioca con la Lim e i telefonini. Una domanda compare sullo schermo della Lim e i ragazzi hanno in mano il loro telefono che diventa una specie di telecomando sul quale scegliere l’opzione corretta nel minore tempo possibile (ricordiamoci questo dettaglio, che chi risponde prima degli altri fa più punti).
È divertente, i Kahoot sono divertenti anche per l’insegnante, che di solito prima li prepara, o quantomeno li sceglie, e dopo muore dalla voglia di giocare pure lui (io gioco, mi camu?o con uno pseudonimo e di solito i ragazzi ci mettono due o tre manche prima di chiedere: «Scusi prof, ma chi è questo Ugo della Panziera che risulta al primo posto e finora non ha sbagliato nemmeno una risposta?» E io: «Boh, che ne so, fatti i fatti tuoi, tu, gioca». Quando mi scoprono, nego e do la colpa a qualcun altro, di solito a Jonathan, che è molto piccolo e indifeso, dico che Ugo della Panziera è lui, gli strizzo l’occhio, lui mi regge il gioco per altre due o tre manche, poi i ragazzi dicono «Sì vabbè, Jonathan ancora non sa manco leggere le domande, come fa a rispondere dopo tre secondi», e a quel punto confesso: «Ok, sono io», e poi mi faccio minaccioso: E ALLORA? NON POSSO GIOCARE? SOLO VOI DOVETE GIOCARE?»).
Kahoot, dicevo, è divertente fino al punto che in quasi tutte le classi, dopo che facciamo il primo, diventa una promessa: «quando facciamo un Kahoot?» «Professore venerdì abbiamo tre ore, possiamo fare un Kahoot a ultima ora?» Diventa una specie di ricompensa («Se finiamo gli argomenti in tempo, venerdì a ultima ora facciamo un Kahoot») o naturalmente una minaccia («Se non la finite di urlare niente più Kahoot»). Succede perché appunto Kahoot è un gioco, e il gioco fa tutt’uno col divertimento, e il divertimento a scuola è ancora, soprattutto dalle mie parti, la provincia remota dell’impero, un’eccezione, non la regola. Del resto, se il divertimento fosse la regola, non sarebbe più un divertimento, almeno non in senso etimologico. Se mi “diverto” è perché verto, giro, rivolgo la mia attenzione verso qualcos’altro, cioè qualcosa verso cui abitualmente non la rivolgo. In pratica mi diverto quando mi distraggo, cioè quando concentro la mia attenzione su qualcosa di diverso (mi di-verto).
E però, se penso a come trasformare la scuola in un luogo in cui il divertimento diventa permanente mi viene in mente quando a scuola arriva uno scrittore. O un attore di teatro o un musicista, un cantautore, un giornalista, un uomo di spettacolo, un puparo (da noi capita che vengano i pupari) o certe volte anche la visita di un politico, un amministratore, un sindaco, un assessore, un ministro della Repubblica, un presidente del consiglio, insomma qualcuno di esterno alla scuola. Se stiamo alla radice del concetto di divertimento, per i ragazzi sono momenti molto simili a quello del Kahoot: quel giorno, in classe o a scuola, si fa una cosa di-versa, l’attenzione si sposta su qualcosa e qualcun altro, non l’insegnante, che viene a dire delle cose. Di-versivo, di-vertimento, di-strazione.
Il buonumore, quando sono in programma eventi di questo tipo, si di?onde in classe almeno una settimana prima: VENERDÌ SIAMO TUTTI IN AULA MAGNA PER SENTIRE BRAD PITT CHE PARLA DI COME SI ARROSTISCONO LE SASIZZE IN NEBRASKA. In realtà non viene mai Brad Pitt. A scuola non vengono mai i bonazzi e le bonazze, cioè non vengono mai, che so, Salma Hayek col vestito scollato dello spot del Campari Soda o Brad Pitt a torso nudo col cappello da cowboy in testa, vengono sempre Marco Paolini e Michela Murgia, che per carità, hanno il loro indiscutibile fascino e un innegabile carisma, però diciamo che è come se esistesse una sorta di limite al divertimento ammissibile in una scuola, non so dire se per disgrazia o per fortuna, però credo che sia una cosa che ha a che vedere col fatto che la scuola, stringi stringi, è un luogo di contenzione. In tutto apparentabile a un ospedale, un carcere, una caserma o un antico manicomio: mura a costringere esseri umani all’interno di un perimetro a svolgere attività che al di fuori di quell’edificio non sarebbe possibile, o sensato, svolgere. La scuola c’ha pure quest’aggravante, cioè che in fondo nelle caserme ogni tanto, per tenere alto l’umore delle truppe, mandavano Rita Hayworth o Marilyn o Marlene Dietrich, e nelle scuole invece niente.
Anche le visite comunque sono distrazione, sono divertimento, e svolgono egregiamente la loro funzione, un po’ come Kahoot: ci distolgono dall’ordinario tran tran e per quel giorno ci proiettano in una dimensione altra, più leggera, più piacevole. O almeno proiettano in questa dimensione gli studenti. Gli studenti, in e?etti, quando viene qualcuno in visita a scuola, ne sono subito irretiti. Si innamorano. Pendono dalle labbra dell’ospite, Marco Paolini li a?abula, Michela Murgia li seduce, Fabio Geda è un pi?eraio magico e loro non si perdono una parola, sono avvinti, sono coinvolti, alzano la mano e fanno domande pertinenti, e tutto di colpo sembra stupendo, tutto all’improvviso, quel giorno, acquista un senso.
E l’insegnante è colto da mixed feelings. Da un lato pensa: ma non potrebbe essere così tutti i giorni? Non potremmo far venire Paolini a parlare di Galilei ogni venerdì all’ultima ora? Geda e la Murgia o D’Avenia non potrebbero coprire l’ora di educazione civica o quella di approfondimento di italiano? Dall’altro lato, l’insegnante si o?ende tantissimo. Guarda i propri alunni e, per la prima volta da quando li conosce, scorge finalmente nei loro occhi la brama di conoscenza, l’habitus del discente, la volontà di sapere di Foucault. Li guarda e pensa: MA VEDI ‘STI STRONZI! Com’è che io passo tre settimane a preparare la lezione interattiva di storia sul Sant’U?zio e questi flippano la bottiglia per tutta l’ora, e invece arriva questo bellimbusto qua e pendono dalle sue labbra? Viene sete di vendetta.
E infatti l’insegnante, subito se ne esce con la frase: «Seguite con attenzione perché domani vi interrogo su questo. O vi faccio fare il tema. O faccio un kahoot su quello che hanno detto Geda e Murgia». In e?etti, gli attori, cantanti, scrittori, registi, giornalisti ospitati da una scuola sono bravissimi a captare la benevolenza dei ragazzi almeno quanto lo sono a captare l’odio dell’insegnante. Vengono vestiti con le All Star bianche senza calze, si siedono sulla cattedra, abbassano il linguaggio del Manzoni o dell’Alighieri e lo porgono attualizzandolo agli adolescenti. Si muovono come su un palcoscenico e drammatizzano, raccontano, si fanno dare del tu: “abbassano il filtro”, come si dice in didattichese, fin quasi ad annullarlo. Solo che loro l’indomani non entreranno in classe. Non dovranno “gestire la classe”, le uscite anticipate, i colloqui coi genitori, i ritardi sul programma, le verifiche di geografia, non dovranno interrogarli, valutarli, cercare di rendersi conto quanto davvero è passato durante la lezione, non parteciperanno a nessun consiglio di classe, nessuno scrutinio, non redigeranno nessun PEI per Jonathan Lombardo, il più piccolo e indifeso, quello da accusare in caso di sommossa. Sono e saranno, cioè, nient’altro che degli amanti.
Alla fine dunque, si ripropone l’eterna lotta tra reazionari e progressisti: bisogna divertirsi sempre? E come si fa, se non c’è differenza tra la consuetudine e l’evento eccezionale (divertente)? Proviamo a tirare le somme da questo delirio.
1. La scuola è un luogo di contenzione. Sorvegliare e punire. Sta fermo lì, stai seduta là. Ma cosa, se non un po’ di coercizione, convincerebbe gli appartenenti alla specie umana a imparare alcunché? Per converso la possibilità di esistenza della società umana tutta si fonda sul contenimento: non posso dire quello che mi pare, quando mi pare, né (o non sempre) sedermi dove voglio, né pretendere che la mia opinione valga quanto quella di chi ne sa di più o è arrivato prima, né di avere sempre la considerazione di cui mi sento degno o bisognoso. Meglio abituarsi da piccoli, allora, perché questo contenimento non sarà una passeggiata per nessuno.
2. Nessuna cosa si impara solo con piacere. Io vado al mare in un posto bellissimo che si chiama Plemmirio, e mentre me ne sto spaparanzato sullo scoglio, vedo quelli che fanno i corsi di sub: sono stressatissimi, infagottati in mute che somigliano a camicie di forza, sudano caldo per il sole e freddo per la tensione. Se vai in montagna e guardi i principianti che fanno il corso di sci, capisci che stanno vivendo nel terrore puro di risvegliarsi da un momento all’altro stesi su un letto di ortopedia, nei corsi di musica ci sono gli insegnanti di solfeggio che se sbagli la biscroma ti amputano due dita di netto. I ragazzini, del resto, accettano di farsi un culo tanto nello sport, con istruttori brutali che se ne fottono dei loro sentimenti (e oltretutto guai a chi glielo tocca, il mister). Certo, va detto che probabilmente imparare matematica o analisi logica è meno gratificante, almeno sul momento, rispetto a imparare a immergersi tra le grotte marine o a fare un passante col rovescio a una mano. Bisogna riflettere un po’ anche su questo.
3. Sono anni e anni che i didatti si arrovellano sull’imparare attraverso il gioco, ma se fosse così facile mettere insieme i due pezzi dell’imparare e del gioco, ora avremmo un metodo, no? Invece i didatti del gioco stanno ancora lì con i loro cartoncini tipo monopoli, i gettoni, le squadre A e B. Io ne conosco di bravissimi, non so, Antonio Brusa di “Historia Ludens”. Solo che ogni tanto leggo di questi giochi e penso: mah, così imparano le date, ma che gioco c’è per insegnagli a ragionare su cause ed e?etti? E poi che due coglioni preparare i cartoncini, non lo può fare la segreteria?
L’ultima cosa, quella più tremenda e spaventosa che ho pensato: niente è mai tutto divertimento. Ogni attività ricreativa e appagante è un miscuglio di piacere e rottura di palle. Giocare d’azzardo, guardare il calcio in tv, ballare a un rave party, nessuno di questi divertimenti sfrenati è fatto esclusivamente di divertimento, ci sono momenti morti, di calo, di tedio in tutte le attività che consideriamo piacevoli. Nulla è puro divertimento. Neanche quella che per millenni è stata considerata l’attività creativa e ricreativa per antonomasia, il sesso, è sempre divertimento, ci sono attimi di angoscia, panico e noia che si mescolano agli altri. Forse è che proprio siamo fatti così, di un impasto colloso come quello della pizza, e quindi è così che è fatta anche la scuola, noia, divertimento, ansia, gioia. Perché è fatta da noi. —