Arsenico, belladonna, polonio e persino la sconosciuta e micidiale tetredotossina, presente in taluni pesci palla: ingrediente facile di certa pubblicistica, nella realtà il veleno è sempre stato una spietata arma letale per uccidere nemici, rivali in amore e personaggi scomodi. La pozione mortale: indispensabile nell’antica Roma, subdola nell’Italia del rinascimento fino a diventare invisibile nell’era contemporanea. Il veneficio è diventato sempre più una sofisticata attività criminale e così sia nei palazzi aristocratici di un tempo come nella Mosca delle spie e della dissidenza di oggi si scelgono queste sostanze per un motivo tanto semplice quanto banale: garantiscono spesso l’impunità dell’assassino, creano terrore, piegano le coscienze dei sopravvissuti.
Difficile un tempo persino da individuare, ora magari vengono intercettate ma appunto rimane impossibile indicare il momento esatto della somministrazione, dilatando così la finestra temporale nella quale porre un contatto tra vittima e carnefice. E, per complicare le cose, la maggior parte delle volte, questi ultimi due nemmeno si sono visti, basti pensare agli omicidi indiretti: una pietanza avvelenata nella cucina di un albergo o una sostanza mortale rilasciata nelle condotte dell’aria condizionata. Quale veleno è stato scelto? Da chi? Quando e dove è stato somministrato? Mistero.
Guerra secolare
Il veleno è il miglior termometro della guerra secolare tra medicina e scienza declinata per il male. Da una parte si cerca di mappare la famiglia degli agenti tossici e letali per l’essere umano, creando antidoti e cure appropriate. Dall’altra si punta a scegliere armi chimiche sempre più sofisticate, che sfuggano al radar di ospedali e anche delle autopsie. Cianuro e tallio sono ormai conosciuti, morire di anossia ovvero di mancanza d’ossigeno, è rapidamente decifrabile da un medico legale ma basti pensare alle sostanze radioattive e a quanto è capace di sintetizzare un medio laboratorio della morte per cogliere quanto sia impari questa battaglia e che siamo all’anticamera del delitto perfetto. Certo, le forze scientifiche di chi indaga si attrezzano per analisi tossicologiche d’avanguardia, sottopongono i campioni repertati a test immunologici, spettroscopici e cromatografici, ma la strada è davvero ancora lunga.
Un tempo, l’evoluzione del veleno e le capacità di individuarlo erano ai minimi termini come la storia di Giovanna Bonanno, eroina negativa del XVIII secolo, amaramente testimonia. Nata con il nome di Anna Pantò, storpiato in Giovanna Bonanno (dal cognome del marito Vincenzo), stando almeno agli atti del processo che subì per stregoneria, questa vedova viveva di accattonaggio, cercando ogni giorno un espediente diverso pur di riempire la saccoccia di qualche preziosa moneta. E in un imprecisato giorno del 1786 ebbe un’intuizione che le avrebbe cambiato per sempre la vita.
La disperazione
Da anni Bonanno sentiva nei borghi e nei vicoli donne lamentarsi dei mariti. Chi imprecava di quand’era convolata a nozze, chi si dannava incredula d’aver sposato un ubriacone, chi un nullafacente, chi un violento. Insomma, nelle confidenze e nei lamenti vi era un numero sempre maggiore di mogli disperate che avrebbero fatto di tutto pur di annullare il matrimonio, sbarazzandosi così della loro ormai amara e odiata metà. Tra queste non mancavano quelle che avrebbero persino commissionato un omicidio, pagando fior di quattrini, pur di affrancarsi da una sudditanza morale, una prostrazione fisica, una sorta di schiavitù di antica memoria e tornare libere finalmente alla propria vita. Giovanna Bonanno ascoltava, annuiva e taceva. Perché avvertiva che bastava poco a lucrare su tutto questo odio profondo, senza però possedere gli strumenti cognitivi e soprattutto criminali per rendere fruttifero il desiderio di rivalsa delle mogli frustrate. E poi, appunto, un giorno arrivò in aiuto l’intuizione.
Era un pomeriggio identico a mille altri quando incontrò il destino nel negozio di aromatario preferito. Per caso entrò una mamma con in braccio la piccola figlia che era stata tanto male di stomaco dopo aver assaggiato aceto per pidocchi. Quella ragazzina chissà quale bevanda aveva pensato di sorseggiare, di certo non l’indigesto veleno per ammazzare questi parassiti. L’informazione ricevuta dalla giovane era troppo preziosa per lasciarla cadere come nulla fosse. E così la donna unì tutti i punti in questa enigmistica dell’omicidio perfetto e fece un esperimento. Comprò un flaconcino con quell’insetticida per pidocchi, uscì da quella che oggi chiameremo farmacia e si diresse in centro, vicino a palazzo Reale dove avvicina un cane randagio, lo lega a un palo e gli offre del pane intinto nel micidiale veleno e si allontana.
L’intruglio
Passa qualche ora e la Bonanno torna. Trova il povero cane stremato con della schiuma biancastra che gli cade dalla bocca e i resti di quel pane vomitato per strada. Riprova e nota che sono assenti i classici sintomi dell’avvelenamento, ovvero fauci annerite e ciocche di pelo cadute. E così iniziò a proporre a fidate potenziali clienti quella sofisticata miscellanea di medicamento contro i pidocchi, tra aceto, vino bianco e arsenico. In pochi giorni il risultato clamoroso schiaffeggiò ogni coscienza delle contrade. Bonanno si offriva a ogni donna delusa dal coniuge, le proponeva di liberarsi dai ceppi, rimanendo così vedova per amor proprio.
Negli annali criminali e dai ricordi emergeva la figura di Giulia Tofana e delle sue imprese, come su queste colonne già raccontato lo scorso agosto, ma Bonanno non si faceva certo intimidire dalla memoria di quella criminale. E così, rispetto all’antenata per scelte assassine, lei volle subito imporre la propria impronta senza domani. Bonanno divenne quindi una figura via via sempre più spartiacque, una sorta di camera di decantazione tra necessità e desideri della comunità dell’epoca.
La prima donna che bussò alla porta della Bonanno fu una signora di mezza età graziosa, dall’immediato passato quantomeno imbarazzante. La signora voleva sbarazzarsi di quell’ingombro che le offuscava ogni sogno futuro, ovvero il marito. Senza quest’ultimo avrebbe potuto dedicarsi in ogni energia e afflato al proprio amante tenuto finora nascosto. Un piano perfetto se non fosse che l’audace traditrice aveva poco da spendere e quindi acquistò solo una dose che certo non servì ad ammazzare l’ignaro marito che ne ricavò solo un gran mal di pancia. A questo punto raddoppiò l’iniziale ordine tanto da somministrare una dopo l’altra una doppia pozione al coniuge odiato che finì dritto all’ospedale ormai privo di vita. Di com’era morto nessuno riuscì mai a chiarirlo e questo cono di mistero elevò quel senso d’impunibilità in Giovanna. Ormai si sentiva spinta da una missione salva anime senza più indugi e confini. Nasce proprio ora la ghigliottina liquida, «quell’arcano liquore aceto» pronto a mietere vittime inconsapevoli.
Vicende fotocopia
Siamo a Palermo nel quartiere popolare Zisa in città si replicano vicende fotocopia con uomini, mariti irreprensibili trovati morti senza perché. Bonanno contava anche su una sorta di rappresentante, tale Maria Pitarra, che andava su e giù per mercati e botteghe per cogliere dissapori, scontri e guerre coniugali all’ultimo stadio. Il delitto invisibile poteva essere servito. Arrivò così il turno della moglie del panettiere: ormai nemmeno sopportava il respiro del marito e ingaggiò la killer di borgata pur di rimanere vedova. Poi fu la volta del nobile additato da tutti al ludibrio per aver dissipato l’enorme fortuna lasciata in eredità dai genitori. E così fu pronto da servire l’arcano liquore aceto a una donna sospettata di aver tradito il marito fornaio con un garzone oppure a quell’uomo che si era messo in mezzo nella storia clandestina tra la propria amata e il giovane giardiniere. Ogni settimana, una morte misteriosa senza che nessuno collegasse questi decessi a un’unica mano, anche perché l’avvelenamento è graduale, si compie in 15 lunghi giorni con i poveretti travolti da dolori atroci che portano i medici ad imputare i decessi a febbri gastrointestinali. Insomma, storie di corna e sospetti, mezze accuse e infamità nell’andamento lento dell’odio che cresce, tracima e porta a uccidere.
Il processo
La catena si interruppe per errore: un giorno l’aceto tossico finì alla persona sbagliata. Solo dopo aver consegnato la dose a una giovane moglie, l’avvelenatrice seppe che la prossima vittima sarebbe stato il coniuge della donna, figlio di Giovanna Lombardo, sua carissima amica. Quest’ultima, venuta a sapere della vendita, preparò una trappola all’amica, come vendetta. Finse di aver bisogno di una dose, si presentò con dei testimoni e al momento giusto la fece arrestare. A Palermo si celebrò un processo senza uguali. Siamo a fine 1788, davanti alla corte sfilano testimoni sopravvissuti per caso, i fornitori di aceto e delle altre sostanze utilizzate dalla Bonanno per le sue pozioni. Lo spazio di difesa è ridotto al minimo, il destino è segnato: pena capitale eseguita con la forca il 30 luglio 1789.