Alcune vivono nei campi profughi, altre hanno ormai i capelli bianchi. Tutte continuano a combattere per i loro diritti. Sono giornaliste, rappresentanti della società civile, attiviste afghane che hanno deciso di dare voce a oltre sedici milioni di donne del loro Paese costrette a scomparire, a rimanere chiuse in casa. E hanno scelto di denunciare che 35 milioni di persone si vedono negati diritti vitali come il cibo.
Fanno parte di Women in international security Italy, capofila del progetto italiano della Task Force per le donne afghane con il supporto del Ministero degli Affari Esteri. Ieri si sono riunite alla Farnesina per un bilancio del primo anno di attività e per rispondere a una domanda: come fare in modo che le donne afghane riconquistino i diritti perduti?
«Bisogna coinvolgere di più le donne afghane – risponde Fatima Gailani, attivista, presente tra i 21 negoziatori di pace a Doha -. E va sottolineato che non è la religione a creare questa condizione delle donne in Afghanistan. Quando avevo 18 anni – ricorda – vedevo nel mio Paese donne diventare parlamentari, donne ministri e pensavo che avrei potuto fare qualsiasi lavoro. Ora non è più così, in Afghanistan un cittadino è tale solo se ha la barba ma la religione non c’entra, il problema sono antichi retaggi culturali fatti risorgere a scapito delle donne». «Un versetto del Corano – aggiunge Fatima Gailani – dice che siamo tutti uguali davanti a Dio. Non capisco dunque perché su quello che accade in Afghanistan anche la voce del mondo musulmano rimane silente». Come agire, quindi? «La situazione delle donne è talmente fragile e delicata – spiega – che va affrontata con estrema attenzione. Il cambiamento deve essere radicato perché non possa essere spazzato via con una folata di vento, com’è già successo».
Mahmouba Seraj ha 74 anni, è giornalista oltre che un’attivista. Il 15 agosto del 2021 quando la democrazia scomparve dal suo Paese, lei decise di restare a Kabul. Nonostante tutto. Era già andata via nel 1978 quando ebbe inizio l’invasione sovietica. Fuggì negli Stati Uniti, ebbe la cittadinanza americana. «Ma non volevo di nuovo diventare una rifugiata, in Afghanistan ci sono le mie sorelle, tutte le persone a me care. Sono rimasta per dare forza a loro e per testimoniare quello che accade. E quello che accade è grave e richiede una mobilitazione di tutti, spiega. «Abbiamo delle persone al potere che non credono nemmeno nell’esistenza delle donne. È necessario agire senza divisioni per etnie o questo disintegrerà il Paese e perderemo una delle storie più antiche del mondo. C’è bisogno della pressione della comunità internazionale, i taleban hanno paura delle potenze occidentali».
Hadja Ibrahim Khel ha 22 anni, si è laureata in Economia ed è una giornalista e un’attivista. Non ha padri, fratelli o mariti che possano darle la protezione che in questo momento i taleban chiedono alle donne. V ive in un campo profughi e ha la famiglia a suo carico. «Per restituire i diritti alle donne afghane bisogna innanzitutto non riconoscere il governo, bisogna dare la parola alle donne e creare programmi per garantire loro un’istruzione. Gli obiettivi per cui lottare sono: libertà, eguaglianza, giustizia».
Frozan Nawabi è stata ministro degli Esteri dell’Afghanistan quando le donne avevano ruoli, carriere. «La crisi ucraina, i cambiamenti climatici, non devono distrarre la comunità internazionale dal fatto che il popolo afghano lotta per i diritti fondamentali come la sicurezza e il cibo», avverte. Secondo Loredana Teodorescu, presidente di WIIS Italia, «ciò che le donne afghane chiedono è di essere ascoltate perché non vogliono che il loro futuro sia deciso da altri».
La strada per la libertà delle donne afghane non passa per l’Iran, sottolineano le partecipanti al convegno. «La situazione in Afghanistan non ha nulla a che vedere con quella in Iran – risponde Mahmouba Seraj -. A noi non importa quello che indossiamo sulla testa, lottiamo per avere il diritto di esistere, di camminare per strada, di andare a scuola o semplicemente a fare la spesa. Io ormai vivo per dare alle afghane che verranno dopo di me il diritto di essere libere. È il mio unico desiderio».