Anche quando il cielo invernale è lattiginoso come il letto semifluido su cui è adagiato un finocchio cotto, reso più prezioso da burro di cacao, mandorle, arance tostate e qualche fogliolina verde di lauroceraso (la creazione è dello chef stellato Guillaume Foucault per il menù «Inspiration(s)» del ristorante Le Grand Chaume), il fascino del Domaine de Chaumont -sur-Loire è immutato. Nella Valle della Loira, patrimonio Unesco dal 2000, questa tenuta di 32 ettari con il maestoso castello che risale l’anno mille (posseduto nel 1550 da Caterina de’ Medici e da lei ceduto alla rivale Diana di Poitiers) nel 2007 è stata acquisita dalla Region Centre Val de Loire e sotto la direzione di Chantal Colleu-Dumond è diventata un esemplare Centro delle arti e della natura.

Con passione e competenza la direttrice cura ogni singolo dettaglio del patrimonio storico di Chaumont-sur-Loire, offrendo parallelamente uno sguardo trasversale sull’arte contemporanea ad un target diversificato di pubblico che conta un numero annuo di oltre 500mila visitatori. Al popolare «Festival Internazionale dei Giardini» che la scorsa primavera ha celebrato la 30/a edizione si sono affiancati negli anni, e con l’alternarsi delle stagioni, altri appuntamenti con l’invito a giovani artisti o di chiara fama (tra loro Sarkis, El Anatsui, Kounellis, Penone, Kawamata, Dougherty, Oliveira, Steiner e Lenzlinger, Quayola) a realizzare opere temporanee e permanenti sul tema della natura all’interno del castello, nelle scuderie, negli ambienti della fattoria, nel parco paesaggistico e anche nel nuovissimo complesso dell’Hotel Le Bois des Chambres con il ristorante Le Grand Chaume (sempre di proprietà della regione), progettato dagli architetti francesi Patrick Bouchain e Loïc Julienne con Alice Périot.

Una perfetta coniugazione di accoglienza e creatività, erede della frizzante magnificenza che durante la Belle Époque aveva caratterizzato gli ultimi bagliori della vita di corte con l’ereditiera Say Marie-Charlotte-Constance Say (proprietaria della tenuta dal 1875 al 1937) e il suo blasonato primo marito, il principe Enrico-Amedeo de Broglie.

In quegli anni a Chaumont-sur-Loire furono ospiti costanti artisti e intellettuali come Sarah Bernhardt e Francis Poulenc, oltre che teste coronate d’Europa, principi indiani e persino un’elefantessa di due anni. Miss Pundgi, dono del maharaja di Kapurthala, arrivò in nave da Bombay il 9 ottobre 1898 accompagnata dal suo mahout e rimase nella tenuta per qualche anno (come ricordano anche le cartoline postali d’epoca), finché le ingenti spese per il suo mantenimento non forzarono la principessa a cederla al Jardin d’Acclimatation di Parigi.

Anche l’interesse per l’ambiente naturale e l’arte dei giardini, che ha dato impulso a tutta l’attività del Domaine de Chaumont-sur-Loire, nasce proprio dalla volontà dei principi de Broglie di creare un giardino per il parco del castello attraverso una trasformazione radicale, tra il 1880 e il 1888 (rimasta in parte incompiuta), ad opera dell’architetto paesaggista Henri Duchêne.

La natura è anche il tema su cui si focalizza il lavoro dei fotografi Michael Kenna, Denis Brihat, Éric Bourret e Flore invitati da Chantal Colleu-Dumond a esporre nel programma di mostre invernali Chaumont-Photo-sur -Loire (fino al 26 febbraio), giunta alla sua quinta edizione. «All’incrocio di questi quattro universi, si iscrivono il tempo e il silenzio – afferma la curatrice – Un tempo plurale, sospeso o ritrovato, catturato o all’opera, è un solo silenzio, un silenzio di vita. Due ingredienti fotografici che offrono alle bellezze della natura la possibilità di lasciarsi contemplare».

Come in un riflesso di specchi può capitare, quindi, di trovare un segno della continuità tra l’esterno e l’interno, magari proprio nella foto Domaine de Chaumont-sur-Loire, Study 8, France scattata quest’anno da Michael Kenna (1953) in un angolo del giardino. La sua mostra Arbres/Trees (accompagnata dalla monografia realizzata per l’occasione con un’introduzione di Françoise Reynaud e pubblicata da Skira) è una sorta di poema epico che racconta le gesta degli alberi incontrati casualmente dal fotografo inglese ad ogni latitudine e longitudine del globo o andati appositamente a cercare. Alberi che egli considera come parenti, membri della sua famiglia.

Rigogliosi o denudati, pini e betulle, querce secolari e ciliegi, alberi di biwa e cipressi si stagliano da fondali sospesi nel tempo dove la neve si sostituisce all’acqua, alle trame fitte della foresta, alle montagne in lontananza (si riconosce anche il profilo massiccio del Gran Sasso in Abruzzo) con un segno che diventa talvolta grafico. Nelle oltre ottanta immagini che Kenna ha scattato a partire dagli anni ’70 è costante quel tempo lento di una fotografia sussurrata e rispettosa che ritrae il soggetto nelle sue fattezze reali, ma anche nel loro divenire immaginifiche portatrici di sogni. La perfezione del bianco e nero conferma una declinazione poetica che appartiene in parte anche al linguaggio di Éric Bourret (1964) nelle cui due serie esposte – Arbos e Primary Forest – affiora uno sprazzo di colore. Fotografo-camminatore, Bourret durante passeggiate che possono durare pochi giorni come mesi interi, ricorre alla fotografia come registrazione del reale ma da un punto di vista completamente dissociato dall’idea tradizionale di «documentazione».

La sua esperienza del visibile passa attraverso la metabolizzazione di un pensiero interiore formulato sovrapponendo le immagini su un unico negativo, secondo un processo concettuale estremamente rigoroso dal punto di vista tecnico nello stabilire il rapporto tra numero di scatti e intervallo. Forse è anche questo apparente paradosso a conferire alla sua «stratificazione temporale» quell’alterazione aritmica che è pur sempre musicale e non meno fluida.
Con il lavoro di Denis Brihat (1928), sperimentatore fin dalla fine degli anni ’50 di una fotografia artistica «esistenziale», l’attenzione agli elementi della natura è declinata in maniera «pittorica». È nota la coerenza dell’artista francese nella ricerca del colore attraverso lo studio di antiche tecniche fotografiche e processi di sviluppo in camera oscura (ossidazioni dell’argento, viraggi e solforazione) che conferiscono al soggetto un colore che ne esalta la qualità espressiva.

Nelle sue quaranta «tele fotografiche» la natura si svela nella sua apparente «semplicità»: cipolle, agli, tulipani, licheni, fiori selvatici, kiwi che, isolati dal contesto, si prestano a letture interpretative in cui dalle pieghe dell’inconscio può affiorare l’ironia e il doppio senso. Infine, con le fotografie di Flore (1963) della serie L’odeur de la nuit était celle du jasmin (L’odore della notte era quella del gelsomino è anche il titolo del suo libro fotografico pubblicato nel 2020 da Postcart edizioni) ci spostiamo in una dimensione di totale immersione in un ipotetico passato dalle sfumature nostalgiche e allusive.

Palme, bambù nani e foreste di mangrovie avvolte dal clima caldo e umido di certi paesaggi dell’Estremo Oriente (tracce di questa natura lussureggiante è presente nella serra tropicale del Domaine de Chaumont-sur-Loire) popolano gli scatti in bianco e nero della fotografa franco-spagnola, densi di suggestioni letterarie (la citazione più esplicita è a Marguerite Duras in L’Amante o Una diga sul Pacifico). Quella di Flore è certamente una natura addomesticata dal ricordo, libera però di migrare in altre avventure.