Isabelle Albuquerque: Orgy For Ten People In One Body
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14 Gennaio 2023La Nota
di Massimo Franco
I tentativi di autoanalisi si moltiplicano, man mano che il Pd si avvicina al congresso. Eppure, pochi sembrano rendersi conto che in gioco è la sopravvivenza stessa del partito. Stefano Bonaccini, candidato alla segreteria e presidente dell’Emilia-Romagna, ieri ha sostenuto in tv che preparare un congresso in cinque o sei mesi «è un po’ da marziani». Osservazione sensata, sebbene un po’ riduttiva. Il tema non sono le lungaggini ma la confusione , se non il vuoto politico che rivelano. La discussione appare rivolta più al passato che al futuro.
Dibattere se sia più giusto scegliere l’asse coi centristi di Carlo Calenda e Matteo Renzi, o col M5S di Giuseppe Conte, perpetua un’immagine di subalternità. E insistere che tre opposizioni divise sono destinate a perdere, è una banalità e insieme la conferma di un difetto di analisi. Il Pd non riesce a rinunciare a uno schema che già lo ha portato al fallimento delle alleanze e poi alla sconfitta. Non solo: promette di prepararne altre a livello regionale già da febbraio. Non a caso Bonaccini, che si sente vicino alla segreteria come capofila del «partito dei sindaci», mette le mani avanti.
Avverte che la prima prova elettorale per il nuovo leader saranno le Europee del 2024. E indica «la panchina», versione edulcorata della «rottamazione» renziana, per chi ha retto il Pd in questi anni. Ma il problema è se e come chiunque vinca il congresso riuscirà a tenere insieme identità ormai in conflitto. L’amalgama tra reduci dell’epoca comunista e cattolici di sinistra di colpo si mostra improponibile. E cresce il sospetto che in passato abbia funzionato anche perché si associava a una strategia di governo in grado di contrastare il centrodestra.
L’accusa di essere stati quasi sempre al potere alla lunga ha logorato l’immagine del Pd. E l’irruzione dei movimenti populisti e la vittoria della destra hanno destabilizzato gli equilibri del partito. Bonaccini promette che il Pd tornerà al governo solo vincendo le elezioni e «non perché siamo chiamati». Suona come una critica velata non solo ai vertici. Sembra anche un «no» preventivo e una presa di distanza dalle richieste venute in epoche diverse al Pd dal Quirinale per evitare che si precipitasse verso una crisi di sistema.
L’ultima volta è avvenuto con il governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi. Ma attribuire il declino dei Dem a questo sa di alibi. Si avverte dunque un’oscillazione tra la volontà di individuare le vere cause di un calo elettorale che si sta perfino accelerando, e la tentazione di scaricarlo all’esterno. Non ha tutti i torti Gianni Cuperlo, un altro dei quattro candidati alla segreteria, quando dice con crudezza che «la domanda vera è se c’è un futuro per questo partito». L’interrogativo rimane pericolosamente in sospeso.