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5 Febbraio 2023La storia La cena (forse) al ristorante con Pelosi, la poesia dedicata ai bimbi della Giostra del Saracinoma soprattutto la fascinazione per gli affreschi di Piero della Francesca che spiegava a Ninetto Davoli
di Salvatore Mannino
C’è una figura pasoliniana che ancora gira per Arezzo, 49 anni dopo la morte di uno degli artisti più poliedrici e maledetti della cultura italiana contemporanea, a un secolo (il centenario è stato celebrato per tutto il 2022) dalla nascita dello scrittore, poeta, regista, polemista. È un semplice fornaio, ormai anziano ma giovane quando Pier Paolo Pasolini, secondo la leggenda che corre in città, lo prese a modello del garzone che consegna una dei cracker in un suo celebre spot per Carosello, un mito per i ragazzini degli anni ‘60. Si dice che il regista, televisivo in questo caso, lo abbia notato mentre cantava con la cesta del pane e ne abbia fatto il prototipo del protagonista della pubblicità, interpretato da Ninetto Davoli.
Ma che ci faceva Pasolini ad Arezzo, città così diversa dalla Mamma Roma della maturità, dalla Bologna degli esordi letterari e dalla Casarsa del Friuli, il paese delle origini da cui fu costretto a scappare per uno scandalo sessuale imperdonabile nell’Italia di fine anni ‘40? È una lunga storia, con un epilogo che, se è vero, è sorprendente. Perché l’ultimo blitz aretino del grande intellettuale che lamentava la scomparsa delle lucciole, nella penisola omologata dal Boom e dimentica del suo passato contadino, sarebbe stato nell’estate del 1974, pochi mesi prima della sua tragica fine all’Idroscalo di Ostia, il 1 novembre di quell’anno. A cena, nel ristorante «Da Cecco», insieme a Pino Pelosi, detto la «Rana», poi condannato per il suo omicidio. La testimonianza, una decina di anni fa, fu di Raul Acquisti, il titolare del locale a lungo frequentato da Pasolini. Acquisti è ancora vivo ma ultranovantenne e non ricorda più. Il racconto parrebbe inverosimile alla luce della versione ufficiale, secondo la quale il poeta e scrittore avrebbe agganciato Pelosi la sera del delitto per un’avventura mercenaria. Ma poco prima di morire, lo stesso Pino la «Rana» ha scritto nel suo libro di memorie di una frequentazione vecchia ormai di qualche mese. Il che rende verosimile, se non vera, questa ultima cena della vittima con il suo assassino.
Non si sa quando Pasolini sia approdato ad Arezzo per la prima volta, ma l’incontro con questa città così riservata e poco propensa ad aprirsi all’esterno, abitata, secondo Dante, da «Botoli ringhiosi», deve risalire agli anni ‘50. Forse una tappa durante i viaggi fra Bologna e Roma dell’intellettuale «maledetto» che era stato appena espulso dal Pci moralista di quel tempo per le accuse di pedofilia dentro la scuola elementare di Casarsa. Di sicuro, l’artista fresco delle letture di Roberto Longhi, grande esteta e critico d’arte, e Gianfranco Contini, maestro della critica letteraria, fu attratto dal tesoro più geloso degli aretini, gli Affreschi di Piero della Francesca nella basilica di San Francesco. E la Leggenda della Vera Croce dovette ammaliarlo a tal punto da farne lo sfondo della prima poesia della Religione del mio tempo , uscito nel 1961, aperto da un poemetto, La ricchezza , ambientato inizialmente proprio ad Arezzo. Protagonista, in chiave squisitamente populista, ma di un populismo gentile, lontano da quello oggi dominante, un operaio che cerca di capire la pittura di un gigante del Rinascimento: Quelle braccia di indemoniati, quelle scure /schiere, quel caos di verdi soldati / e cavalli violenti e quella /pura luce che tutto vede . Nella seconda poesia della Ricchezza , lo sguardo del poeta si allarga ad altri pezzi di centro storico, ai Caffè semivuoti e a una vigilia di Giostra vista attraverso gli occhi dei bambini aretini degli anni ‘50: Non si sente nella piazza dentro il cerchio /delle trecentesche case, che un sospeso /chiasso di ragazzi…E poiché i ferri e i pali /dei palchi per il Palio / fanno della piazza quasi una gabbia /eccoli brulicare, saltellare! . Mai forse la massima manifestazione aretina ha avuto un omaggio poetico così alto.
Pasolini tornerà ripetutamente ad Arezzo tra il 1968 e il 1969, quando militare di leva al 225° della centralissima caserma Cadorna era proprio Davoli, cui era legato da un affetto particolare. Per essere vicino al suo Ninetto, specie nei sabati e nelle domeniche di libera uscita, il regista giunse a sospendere le riprese di Medea , con Maria Callas. Raul Acquisti ricorda di averlo ospitato più volte in albergo, mentre aspettava Davoli: «Un uomo colto, riservato ma alla mano, grande appassionato di arte e di pittura. Finivamo in lunghe conversazioni sugli scrittori e gli artisti toscani, da Prezzolini a Soffici e Papini». Una foto d’epoca lo coglie ancora tra gli affreschi di Piero, mentre li spiega a Ninetto. «Ci ero passato davanti tante volte alla chiesa — ha ammesso quest’ultimo — ma mai mi ero sognato di entrarci, né avevo capito la Leggenda finché Pier Paolo non me l’ha spiegata». Pasolini divenne amico anche del colonnello Enzo Pecchi, allora comandante del 225°, ma anche ex centravanti dell’Arezzo, noto come «Testina d’oro» per la sua abilità aerea. «Veniva — ha raccontato il figlio Umberto, allora ragazzo e adesso medico — sia nella casa di Arezzo che nella villetta di campagna, ad Alberoro, le conversazioni con lui erano entusiasmanti». Alle celebrazioni del centenario in città il dottor Pecchi si è presentato con un disegno di mano dell’artista, fatto proprio per lui, è stato un momento di commozione. Si parlò persino di girare un film nella villetta di Alberoro, Acquisti ricorda l’ipotesi di utilizzare la sua filarmonica per la colonna sonora di Salò o le 120 giornate di Sodoma , l’ultimo film incompiuto e maledetto di un regista già maledetto di suo. E siamo già nel 1974, a ridosso della morte, degli Scritti corsari , forse dell’ultima cena aretina, quella con il suo assassino. Raul Acquisti ricorda bene o la memoria, ormai lontana, lo tradisce? Anche questo fa parte della leggenda di un intellettuale che sfugge a ogni tentativo di rinchiuderlo nella gabbia della realtà. Come i bambini aretini da lui descritti che giocano davanti alle gabbie della Giostra del Saracino.
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