La drastica riforma di Opzione donna operata dal governo ne accentua le caratteristiche contraddittorie e i profili di iniquità. Introdotta nel 2004, per compensare l’innalzamento dell’età alla pensione della riforma Dini, e rinnovata ogni anno, fino allo scorso anno consentiva alle donne di andare in pensione a 58 anni con 35 anni di contributi, ma al prezzo di un calcolo dell’ammontare della pensione tutto contributivo, che comportava una riduzione del 30% in media. Ci si può chiedere chi può permettersi un taglio del genere, tanto più che le donne hanno per lo più pensioni molto contenute, stanti le maggiori difficoltà che incontrano nel mercato del lavoro e nella progressione di carriera e retribuzione.
In realtà, ad averne fruito maggiormente negli anni sembra che non siano state le pensionate più abbienti, ma quelle con pensioni basse. Tra queste ci sono donne che avevano perso il lavoro e che hanno potuto così tornare ad avere un reddito, per quanto ridotto. Ma ci sono anche donne che dovevano fronteggiare domande di cura famigliare intensiva, verso familiari non autosufficienti o comunque fragili, in assenza di servizi adeguati e senza i mezzi finanziari per ricorrere al mercato. Ricorrendo all’Opzione donna rinunciavano ad una quota di pensione per poter svolgere un lavoro di cura gratuito in assenza di alternative.
Più che un privilegio, l’Opzione donna è stata un modo di ribadire che la responsabilità della cura dei più piccoli e dei più fragili è delle donne, a qualsiasi età, come madri, nonne, figlie. Invece di investire nei servizi e favorire una più equilibrata divisione delle responsabilità tra uomini e donne in famiglia e tra famiglia e servizi, si è preferito favorire una uscitaanticipata delle donne dal mercato del lavoro, purché ne pagassero il prezzo, a differenza di quanto è successo con Quota 100 ed ora 103, che non ha nessuna penalizzazione ed è particolarmente conveniente per chi, per lo più uomini, ha maturato una buona pensione.
La riforma attuale, stringendo i paletti all’accesso e senza modificare la penalizzazione, accentua l’assegnazione alle donne, e solo a loro, della responsabilità di cura per familiari non autosufficienti. Avere un familiare non autosufficiente è infatti una delle condizioni che vi dà accesso. Allo stesso tempo introduce elementi di discriminazione al contrario.
Tutti i nuovi requisiti, pur riferendosi a situazioni di grave difficoltà, riguardano solo le donne: oltre alla condizione dicaregiver , essere invalide al 75%, essere disoccupate da almeno un anno o essere dipendenti di una azienda in crisi. Non si capisce perché un uomo nelle stesse condizioni non possa avere lastessa possibilità. Soprattutto non si capisce perché mantenere l’Opzione donna e non, invece, utilizzare l’Ape sociale, che già prevede queste fattispecie, ma ha requisiti di età e anzianità contributiva differenti, modificandola dove necessario.
Sarebbe opportuno che i sindacati discutessero di questo, invece di difendere un istituto che svantaggia le donne ed è discriminatorio. Capisco che per molte donne appaia l’unica soluzione possibile, ma è ingiusta per loro, che dovrebbero aver diritto a non essere messe nella condizione di dover scegliere tra il lavoro e le responsabilità di cura, pagandone anche il prezzo in termini economici, come se non lo avessero già pagato con carriere lavorative e contributive interrotte o con scarsa progressione.
Distinzione di sesso si può, invece, mantenere, per quanto riguarda la valorizzazione, a fini pensionistici, dell’aver avuto figli. Non tanto per consentire anticipi pensionistici, come mi sembra intenda fare il governo, ma per arricchire, tramite contributi figurativi, il montante contributivo, quindi la pensione delle madri, riconoscendo il valore del tempo dedicato alla cura (in Germania vale un anno di contributi figurativi per ciascun figlio). Se si vogliono aiutare le madri e incoraggiare la fecondità non serve “regalare tempo” quando si è in età matura e i figli sono grandi. Servono servizi e orari di lavoro che consentano di conciliare maternità e lavoro. A meno che non ci si aspetti che le donne, dopo aver cresciuto i figli facendo i salti mortali per non lasciare il lavoro, lo lascino per accudire i nipoti e/o i propri genitori divenuti fragili, surrogando la mancanza di servizi.