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24 Febbraio 2023Economia della conoscenza lezioni da Cambridge a Milano
di Carlo Ratti
Pubblichiamo un estratto dalla prolusione che Carlo Ratti, architetto e ingegnere, tiene oggi presso il Politecnico di Milano (ore 14.15, Aula Magna del rettorato, accesso libero). Carlo Ratti è autore di «La città di domani» (2017) e «Urbanità» (2022), Einaudi.
Nel 2004, un’enorme doppia elica di Dna apparve sul tetto di una vecchia fabbrica di caramelle a pochi passi dalla mia casa di Cambridge, nel Massachusetts. L’edificio, per quasi ottant’anni appartenuto alla New England Confectionery Company — una delle tante aziende che formavano l’ex «Confectioner’s Row», il distretto dei dolciumi — si stava accingendo a cambiare pelle. Presto avrebbe accolto un grande laboratorio della multinazionale farmaceutica Novartis.
Cambridge si trovava, al tempo, all’inizio di una trasformazione che in breve l’avrebbe portata a diventare il principale polo mondiale per la ricerca nel campo delle biotecnologie, sopravanzando di gran lunga l’eterna rivale Silicon Valley. Un percorso sorprendente, facilitato dalla presenza delle sue università e di una persona particolare: Susan Hockfield, biologa e prima donna a essere nominata rettore del Massachusetts Institute of Technology (Mit). Si tratta di una storia che contiene lezioni importanti per tutte quelle città che oggi stanno puntando sull’economia della conoscenza.
Il successo di Cambridge non era scontato. Nel XX secolo, questa piccola città, parte dell’area metropolitana di Boston, aveva sfidato la Silicon Valley ma ne era uscita perdente. Le sue università avevano sì contribuito alla nascita del personal computer e di Internet; ma Cambridge non era mai riuscita ad affermarsi davvero nel mondo dell’innovazione digitale.
All’area metropolitana di Boston restava tuttavia un altro primato. Oltre a Harvard e al Mit, nell’intera conurbazione vi sono 44 college: magneti per giovani di talento provenienti da tutto il mondo. Il numero complessivo di studenti supera il mezzo milione, di cui circa 50.000 nella sola Cambridge (su 120.000 abitanti totali).
Fu in questo contesto che, alla fine del 2004, il Mit elesse come rettrice Susan Hockfield. Nata a Chicago, e laureata prima in biologia e poi in neuroscienze, arrivò a Cambridge dopo una carriera a Yale, dove aveva diretto un centro del sapere trasversale come la Graduate Schools of Arts and Sciences. Fu lei a rendere le scienze della vita una priorità chiave del Mit, un’università da sempre guidata da ingegneri. Ma non fu la sola logica che andò a scardinare.
Iniziò infatti un’opera di avvicinamento accademico a Harvard – «l’altra scuola sul fiume», come veniva spesso chiamata con diffidenza al Mit. Frutto di quella sinergia fu la nascita, all’inizio come creatura sperimentale (nel 2003), e poi come istituzione permanente (nel 2008), del Broad Institute, oggi fulcro dell’innovazione nel settore delle biotecnologie.
Abbattendo i compartimenti stagni delle discipline, il Broad Institute sta dimostrando la possibilità concreta di un futuro in cui, grazie all’intelligenza artificiale e a sempre maggiori prestazioni delle tecnologie digitali, ci si possa avvicinare alla comprensione del funzionamento dell’essere umano – l’unico sistema conosciuto più complesso di un computer. A seguito della fondazione di centri come Broad iniziarono ad arrivare le aziende: tra queste, Biogen, Genzyme, Genentech, Novartis, pronte ad assumere i neolaureati di Harvard e del Mit.
A oggi Cambridge è la sede di oltre 250 imprese biotecnologiche, molte raggruppate intorno a Kendall Square. Le grandi multinazionali dominano la scena, ma non poche start up sono cresciute a una velocità sorprendente. Per esempio Moderna, cofondata dal mio collega Robert Langer, e ormai elevata allo status di colosso farmaceutico dopo la messa a punto di uno dei primi vaccini contro il Covid-19. Tutto si fonda sull’idea di ecosistema. Non soltanto la fusione tra biologia e tecnologia. O l’interazione tra due università capaci di mettere da parte vecchi rancori e iniziare a lavorare insieme.
Certo, questo successo non è stato esente da inconvenienti — tra cui un aumento marcato delle disparità sociali. Se Cambridge ha aperto le sue porte a una comunità globale di biotecnologi, dedicando milioni di metri quadri a nuovi laboratori e uffici, ha tuttavia anche reso la vita più difficile ad alcuni suoi cittadini. I prezzi degli immobili sono schizzati verso l’alto, costringendo migliaia di lavoratori a basso reddito a trasferirsi più lontano. Inoltre una nuova aristocrazia scientifica — composta di ricercatori iperistruiti e iperpagati — ha reso tutta l’area di Boston, nonostante le sue politiche progressiste, uno dei luoghi con maggior diseguaglianze sociali negli Stati Uniti.
In conclusione, mentre percorriamo le strade di questa piccola città del New England, possiamo cristallizzare l’esperienza di Cambridge intorno a tre lezioni, valide a loro modo per tutti quei centri urbani che, ovunque nel pianeta, stanno puntando sull’economia della conoscenza.
La prima lezione è quella di non aggrapparsi al passato. Il distretto delle caramelle di Cambridge, per decenni fonte di orgoglio cittadino e conosciuto in tutti gli Stati Uniti, è scomparso. Ma invece di rimpiangere quella gloria svanita, la città si è evoluta, tramutando una crisi economica in un’opportunità di «distruzione creativa» — che ne ha aperta un’altra.
Seconda lezione: ciascuna istituzione, per quanto importante, non detiene da sola le chiavi del proprio successo. Come i batteri che riescono a ricombinare il Dna nel proprio ciclo vitale, le migliori innovazioni sono il risultato della contaminazione tra mondi diversi. Perché questo accada è necessario che amministrazioni locali, università e aziende si attivino nel promuovere collaborazioni e visioni trasversali.
Infine, la terza lezione: la «distruzione» della distruzione creativa ricade spesso in modo asimmetrico su coloro che meno possono permettersela, creando nuove sacche di povertà. Contrastarle sarà proprio la sfida più importante per il domani di Cambridge — e di molti altri luoghi con una simile vocazione all’innovazione: dalla Silicon Valley fino a Londra e Milano. D’altronde, quale miglior innovazione per le scienze della vita, che migliorare la vita di tutti?