Women Talking’s Pop Feminism Can’t Confront the Messy Reality of Women’s Oppression
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26 Febbraio 2023di Maurizio Ferraris
Una volta che abbiamo riconosciuto che l’umano non è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, o che le anime siano entrate nei corpi discendendo dall’iperuranio, come si spiega che l’animale umano sia così diverso dagli altri organismi? Si può risolvere il problema negando l’evidenza: gli animali umani sono animali come tutti gli altri.
Scartato questo todos caballos, versione contemporanea del todos caballeros, occorre dunque motivare la differenza tra caballos e caballeros, e la risposta (sulla scia di Immanuel Kant) è molto semplice: l’umano è il solo animale che possa essere educato, invece che seguire le leggi di quello che così oscuramente chiamiamo «istinto», o subire un addestramento che trasforma, poniamo, un cavallo in un’attrazione da circo. La differenza si manifesta molto presto. Come ogni altro organismo, l’umano è dotato all’inizio soltanto di finalità interne, ossia risponde ai bisogni del proprio metabolismo.
Non è poca cosa, rispetto all’impassibilità di un meccanismo. Il termostato non ha alcuna intenzione di regolare la temperatura, mentre il cucciolo di qualunque mammifero ha intenzione di nutrirsi del latte materno, vuole farlo, ne ha bisogno, così come ha bisogno di dormire o di respirare. È questo il motivo per cui l’intelligenza artificiale non sarà mai come l’intelligenza naturale, anche se, per diventare intelligente o almeno umano, l’animale umano deve passare attraverso prove difficilissime, stressanti e dall’esito non sempre garantito, che hanno sistematicamente a che fare con l’artificio, la tecnica, l’imitazione.
Pensiamo ai primi anni di vita di un bambino. L’età felice e oziosa è in realtà un percorso a ostacoli, visto che se siamo nati per mangiare e per dormire, non siamo nati per adottare la stazione eretta o per parlare, per stare composti a tavola, e figuriamoci poi per leggere, scrivere e far di conto. Sono tutte capacità che si acquisiscono (più o meno bene, e talvolta malissimo o per niente) attraverso processi di addestramento defatiganti rispetto ai quali la formazione di un militare prussiano è una passeggiata. E questo processo di «disciplina e allevamento», come avrebbe detto Friedrich Nietzsche, si spinge sin nei dettagli della sensibilità: l’educazione sentimentale, per esempio, non è un modo di dire. Il modo in cui viviamo i nostri affetti dipende dai lunghi anni vissuti con i genitori (difficile immaginare un gatto edipico), e da una quantità di eventi, libri letti, canzoni ascoltate, esempi e variazioni culturali che rendono difficile raccogliere sotto lo stesso titolo, poniamo, il matrimonio nella Roma antica, l’amor cortese e i dispiaceri di Anna Karenina.
Ma, tanto nell’acquisizione delle buone maniere a tavola quanto nell’educazione sentimentale, e insomma in quell’impresa insieme inevitabile e mai pienamente realizzabile che è «imparare a vivere», si tratta di imitare, ripetere, mandare a memoria, incorporare dei movimenti, ossia generare una seconda natura, quella dell’animale dotato di linguaggio e di ragione, che è definitoria dell’umano, ma non è iscritta nel nostro Dna se non nella forma di una serie di difetti che sono accresciuti, invece che mitigati, dall’evoluzione culturale. Perché se non avessimo acquisito la stazione eretta — condizione imprescindibile per adoperare le mani e maneggiare strumenti tecnici permettendo che la bocca, non più adibita alla prensione, potesse perfezionarsi per l’espressione — i cuccioli dell’animale umano non sarebbero nati così prematuri (un animale in stazione eretta non può sopportare il peso di un cucciolo pienamente sviluppato), e dunque così bisognosi di cure parentali e, in generale, così dipendenti. Perciò, per esempio, capaci, unici tra gli animali, di desiderare la libertà. Il cane che cerca di liberarsi dalla catena è uguale a un umano che cerca di liberarsi dalla catena ma, diversamente dall’umano, non sentirà mai l’esigenza di manifestazioni per la libertà d’espressione.
Prima di ritornare con maggiore precisione sulla differenza tra l’animale umano e quello non umano, definiamo i confini che separano l’animale (umano e non umano) e lo strumento tecnico, ossia il servitore muto che fa sì che gli animali umani siano così diversi dagli altri animali. Una catena è fatta per legare un cane o un galeotto, ma non lo fa per cattiveria, è fatta così; un orologio è fatto per misurare il tempo, e sarebbe a dir poco singolare se si preoccupasse del tempo che passa. Si tratta della caratteristica propria di tutti gli apparati tecnici, quella di disporre di una finalità (di ciò che, con un calco greco, i filosofi chiamano «teleologia») esterna: martelli fatti per picchiare, lampadine fatte per illuminare, telefoni fatti per comunicare, computer fatti per calcolare (o, se preferiamo, e non c’è nulla di scandaloso, fatti per pensare). Questa teleologia esterna, questo avere un fine fuori di sé, è completamente estranea a qualunque organismo: la rosa non è fatta per fiorire, le pecore non sono fatte per produrre lana, il naso non è fatto per sorreggere gli occhiali. Ovviamente, una volta che siamo posti di fronte a un organismo, possiamo cercare di spiegare le funzioni degli organi che lo compongono come se si trattasse di strumenti tecnici (il cuore è fatto per pompare sangue, e se ne possono sostituire delle parti con protesi tecniche, ad esempio i bypass coronarici, gli occhi sono fatti per vedere e se ne possono migliorare le prestazioni con altre protesi, ad esempio gli occhiali).
Solo se concepissimo l’universo e ogni sua parte come la creazione di un Dio potremmo estendere agli organismi (che in quel caso sarebbero creature) le finalità esterne degli apparati tecnici. Ma l’idea di una creazione divina del mondo ha oggi pochi credenti, almeno espliciti, sebbene un creazionismo incoerente sopravviva in tante convinzioni che fanno parte dello strumentario concettuale dell’umanità contemporanea: che esista la natura e che possieda delle finalità che, qualora contrastate, ne scatenano la vendetta, o che gli organismi non abbiano solo una finalità interna (vivere fino a che possono) ma anche una finalità esterna (riprodurre la specie o magari realizzare un qualche destino storico). La progressiva consapevolezza del fatto che, per esempio, gli organismi umani non sono creati né destinati alla realizzazione di un destino storico ha generato nell’Ottocento il nichilismo che, se considerato spassionatamente, non è la morte di Dio o la crisi dei valori, ma la frustrazione di uno pneumatico che scoprisse che non c’è alcun disegno trascendente dietro all’invenzione dell’automobile. Sebbene con tonalità spirituali diverse, le preoccupazioni intorno all’intelligenza artificiale creano una concorrenza implausibile tra una macchina fatta per pensare e un organo (il cervello, o l’organismo di cui è parte) che viceversa non ha come fine precipuo il pensiero.
Ora, che cosa fa sì che un organismo abbia intenzioni, mentre un meccanismo si limita a riceverle? Banalmente, dal fatto che quando un meccanismo smette di funzionare può essere riparato, mentre quando un organismo si ferma è per sempre, e questo fa sì che gli organismi, diversamente dai meccanismi, abbiano urgenze, volontà, emozioni. Immaginare un computer che si annoia, o che ha paura, è impossibile non solo perché il computer non sa di annoiarsi o di aver paura (a volte succede anche a noi) ma perché se lo sapesse saprebbe anche che questi sentimenti sono immotivati: ha di fronte a sé tutto il tempo, basta che aggiornino il programma. Questa differenza tra acceso e spento (l’organismo) e la serie acceso/spento, acceso/spento, acceso/spento (il meccanismo) si applica dunque a tutti gli animali, umani e non umani. Ma nel mondo umano si articolano, come abbiamo visto, con il sistema dei meccanismi, e con quella grandissima macchina che è la società, e retroagiscono sull’umano, appunto attraverso l’educazione, generando nell’animale umano, diversamente che in quello non umano e proprio come in un apparato tecnico, delle finalità esterne.
L’animale umano, inserito in un contesto sociotecnico, viene così investito di finalità esterne: diventa membro di un clan, è chiamato a coltivare la terra, o a combattere, o a celebrare dei riti, esattamente come se fosse un meccanismo (ciò è tanto più evidente oggi, nel momento in cui un numero sempre crescente di queste attività vengono automatizzate). Queste finalità determinano scopi e valori, perché nessuno potrebbe concepire l’idea di diventare panettiere o ammiraglio al di fuori di un contesto sociale. Ed è proprio qui che si stabilisce una differenza insuperabile tra l’animale umano e gli altri animali, che dipende molto meno da ciò che l’umano è come natura che non da ciò che è come seconda natura.
Si noti bene: «seconda natura» non è affatto una versione aggiornata dell’anima. Anzi, la cooperazione tra umani e strumenti tecnici pone una serissima obiezione al principio kantiano del trattare tutti gli umani come fini e non come mezzi. Nella maggior parte dei casi, a parte il rispetto che si deve a ogni essere umano, la stragrande maggioranza dei nostri rapporti con gli umani sono strumentali, tanto è vero che l’automazione ha progressivamente sostituito gli umani in una serie di funzioni mostrando come, nello svolgerle, l’umano fungesse da strumento: il cassiere viene sostituito da una macchina, il che significa che, nella sua mansione, era una macchina. Era anche un essere umano, beninteso, giacché le conseguenze giuridiche del prendere a calci un distributore di caffè sono molto diverse da quelle legate al prendere a calci un barista. Ma non era in quanto fine, bensì in quanto mezzo, che mi rivolgevo al cassiere e a un barista.
Senza assomigliare in alcun modo a uno spirito che cala sul mondo come nella Pentecoste, la seconda natura, l’interazione sistematica tra umani e meccanismi, non solo pone le condizioni per la nostra vita materiale, ma fa sì che gli umani siano capaci, diversamente dagli animali non umani, di costruire un si-stema di fini, ossia di campi di senso, che va molto al di là del semplice bisogno organico, segnando un’altra differenza tra l’animale umano e quello non umano. Se Kant esagerava nella pretesa di conside-rare un fine e non un mezzo il suo fornitore di Bordeaux, coglieva perfettamente l’essenza della natura umana quando sostituiva il Regno dei Cieli con il Regno dei Fini. Introducendo nella scena filosofica il nichilismo come assenza di fini, ossia come alternativa mondana all’Inferno, Nietzsche completava il quadro. Scoprire di essere gli ingranaggi di un sistema privo di finalità ultime, quello che oggi si chiama bullshit job, è un fenomeno che può accadere soltanto a un umano. Per più di un motivo, risulta inconcepibile un castoro che va in crisi quando scopre la vanità di un lavoro che consiste nello scrivere delle email e di rispondere ad altre email. Ma, se è per questo, ancor più inconcepibile è pensare che quel castoro sia preso dallo sconforto e trovi di colpo inane la costruzione delle dighe, e quando pure il suicidio di massa dei lemming non fosse una leggenda (ma lo è), sarebbe implausibile vederci una tappa del nichilismo europeo.
Un ultimo punto. È concepibile un animale non umano che sa cosa sia la morte? Martin Heidegger lo escludeva, sostenendo che solo l’umano sa di morire, ma era negare l’evidenza del lutto. Quando mia madre è morta, il suo gatto entrò in uno stato di lutto anche più manifesto del mio, e quando, tre anni dopo, è morto lui non solo, come è ovvio, ho avuto una fitta di dolore che mi ha ricondotto alla morte di mia madre, ma mi sono chiesto se nel momento in cui è morto avesse provato qualcosa come l’idea di un compimento. Non ne ho, come si può ben immaginare, la minima idea, così come non ho idea di cosa abbia davvero sentito mia madre o qualunque altro morente, nel momento del trapasso. Se sia stato come una candela che si spegne, come una constatazione («ecco, muoio») o chissà come altrimenti. Sta di fatto che gli umani, in quanto risultato di quell’intreccio tra natura e seconda natura che ho appena descritto, spesso si rappresentano la propria fine (il compimento della propria finalità interna, la resa del metabolismo) come un fine (la realizzazione di un mandato) e, inversamente, colgono l’imminenza della fine in ogni opera portata a compimento. E sospetto che, per via della sua intrinseca dimensione culturale e storica, questo dono oscuro e controverso sia una prerogativa dell’animale che può essere educato.