Viaggio vertiginoso nel futuro
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di Alessia Cruciani
Comincia «OPEN DIALOGUES». PISANO: FORMAZIONE E DIGITALE
«Uno dei pilastri per aiutare l’Italia ad affrontare la trasformazione digitale è la formazione delle competenze». A sostenerlo è Paola Pisano, ministro dell’Innovazione nel governo Conte II e professore di Gestione dell’Innovazione all’Università di Torino, tra i protagonisti di Open Dialogues for Future.
Investire sul capitale umano è il primo comandamento di un’Italia digitale?
«È la nostra risorsa più preziosa. Non abbiamo giacimenti petroliferi importanti o terre rare. È necessario sentire l’urgenza di investire sulle competenze. I giovani devono imparare a sviluppare le nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale o quelle decentralizzate. È in atto una grande trasformazione, spero che il Paese riesca a guadagnarsi un posto di rilievo».
Una formazione simile non deve partire dalla scuola?
«Esatto, bisogna investire molto fin dalle elementari. È poi necessario sostenere enti pubblici e privati nell’uso della tecnologia già disponibile per rendere i servizi più efficienti, stabili, facili, sicuri e trasparenti. Se non è difficile usare strumenti come ChatGPT, servono invece competenze specifiche per svilupparli, così come per far crescere un ecosistema sulle nuove tecnologie. Professionalità tecniche, manageriali e finanziarie».
Può fare un esempio?
«Durante il governo Draghi sono stata consigliera per l’innovazione dell’ex ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Tra i vari progetti ne abbiamo avviato uno chiamato “Predictivity Diplomacy” sull’utilizzo dei dati per sostenere le attività dei diplomatici. Grazie a due bravissimi data analyst del mio gruppo di ricerca, abbiamo applicato una metodologia basata sull’AI e il machine learning, per identificare l’arrivo di un conflitto prima che si verifichi. I risultati sono molto promettenti: il nostro algoritmo ha riconosciuto una situazione di pre-conflitto in Ucraina 84 giorni prima dell’inizio della guerra e in Burkina Faso oltre 8 mesi prima l’avvenuto colpo di stato. Stiamo ora estendendo questo sistema per individuare in anticipo anche le rivolte interne ai paesi. Sviluppare questi sistemi richiede competenze, usarli e diffonderli richiede invece un indirizzo strategico verso la digitalizzazione».
Direzioni
«Non abbiamo giacimenti petroliferi importanti o terre rare, ma capitale umano»
I fondi del Pnrr, così come sono stati destinati, favoriranno l’evoluzione del Paese?
«Sulla carta sembrano funzionare. Poi bisogna sperare che le cose siano ben fatte. Nel settore educativo e della ricerca esiste una strategia per sviluppare ciò che oggi manca e che servirà in futuro, oppure il Pnrr sostiene solo progetti che già esistono? Si stanno formando gli insegnanti e i professori? Trenta miliardi indirizzati a questo settore equivalgono a una manovra finanziaria. Per esempio, il dipartimento di Economia e Statistica dell’Università di Torino dove lavoro sta investendo molto sull’abbinamento tra competenze sui big data e le materie insegnate nei corsi di studio, grazie a un “patto sui big data con le aziende”. Queste ultime si impegnano a portare le competenze di raccolta, analisi e visualizzazione dati nei diversi corsi, noi ci impegniamo nella conoscenza di dominio della materia».
Settori delicati?
«Il sistema sanitario mostra difficoltà mentre la popolazione italiana invecchia. Ci sono 15 miliardi del Pnrr nel settore del care, è tanto. Ma la difficoltà di usare nuove tecnologie in un ospedale pubblico è elevata. Quando ero al Governo abbiamo inserito la norma “Sperimentazione Italia” che dava la possibilità di testare soluzioni tecnologiche non ancora regolamentate. Se questa dava esiti positivi il Governo si impegnava a definire la normativa nuova per sostenerla. Ma è una piccola cosa. Serve un percorso che faccia scalare l’innovazione, finanziatori competenti e un sistema di aziende pubbliche e private “invogliato” all’utilizzo. È il premier che deve avere a cuore questo cambiamento, altrimenti sarà difficile creare il “sistema Italia dell’innovazione”».
Condivide l’idea di avere un solo strumento per l’identità digitale, abbandonando lo Spid?
«Sì, anch’io avevo provato a far convergere carta identità elettronica e Spid. L’identità di un cittadino, che sia digitale o analogica, è di competenza dello Stato. Anche se sorrido a pensare che si produca ancora un pezzo di plastica come carta d’identità, quando si parla di ambiente e abbiamo digitalizzato persino la nostra carta di credito. Ma sono certa che il sottosegretario Butti ci stia già pensando».