le idee
di Donatella Stasio
Mettiamo due codici fascisti, sopravvissuti al regime grazie a cancellature parziali; mettiamoli nelle mani di un artista che della cancellatura è un maestro e, infine, mettiamo questo impasto di arte e diritto sotto lo sguardo di chi, per mestiere, è abituato a cancellare leggi, articoli, commi, parole, perché in contrasto con la Costituzione. Ecco apparirci un nuovo volto del diritto civile e penale, meno arcigno e autoritario e più vicino alle vicende mutevoli della vita e alle persone, meno pretenzioso e violento, più mite e più forte al tempo stesso. Travolto dall’arte, il diritto mostra i suoi paradossi, le sue contraddizioni, i suoi limiti, l’inadeguatezza del suo linguaggio. Spogliato da ogni sovrabbondanza, «ci svela realtà che non volevamo vedere» e la «necessità di costruire un mondo più giusto», ci dicono Daria de Pretis e Francesco Viganò, i due giudici costituzionali che si sono immersi nei codici civile e penale cancellati da Emilio Isgrò, artista, poeta e scrittore, abituato a far volare l’arte oltre i mercati e i musei e ad impastarla, ogni tanto, anche con il diritto.
Isgrò ha già cancellato testi giuridici, tra cui la Costituzione e le leggi razziali. Ora si cimenta con due codici nati in epoca fascista, che – con qualche ritocco, non sempre riuscito, soprattutto per il penale – continuano a regolare la nostra vita. Le 20 “tavole” su cui ha lavorato – fornitegli dall’editore Giuffrè – saranno in mostra dal 23 marzo a Castel Capuano, per l’inaugurazione della sede napoletana della Scuola superiore della magistratura alla presenza del Capo dello Stato, e saranno accompagnate dalla lettura “speciale” – pubblicata da Schira nel catalogo della mostra Cancellazione dei codici – che ne hanno fatto la vicepresidente della Consulta de Pretis e il giudice Viganò.
Cancellare è un’arte per Isgró e un mestiere per de Pretis e Viganò. La Corte costituzionale, infatti, è una sorta di legislatore negativo poiché cancella le disarmonie esistenti nel nostro sistema legislativo rispetto alla Costituzione. In quest’operazione di sottrazione, però, c’è un risvolto creativo, poiché cancellare la norma incostituzionale significa pur sempre aggiungere una tutela prima inesistente. L’aspetto creativo accomuna dunque le cancellazioni di Isgró e dei giudici costituzionali. Ed è forse il motivo per cui de Pretis e Viganò riescono così efficacemente a leggere l’opera dell’artista.
La mano di Isgró arriva dove molti hanno fallito. Molti hanno provato a cancellare il codice del 1930 di Alfredo Rocco, ministro di grazia e giustizia di Benito Mussolini, senza mai riuscirci. L’esito è per certi versi sorprendente. Viganò ammette, ad esempio, di non essersi mai accorto di quante volte in quel codice compaia la parola guerra. Attraverso le cancellature, Isgró «ci restituisce questa parola, ossessiva, tra le pieghe dei primi reati descritti dal codice, quelli che puniscono con la massima severità chi compia delitti contro lo Stato e la sua sicurezza esterna», scrive, annotando subito dopo che «quel che resta delle cancellature è solo il senso di una spirale infinita e ossessiva: l’unica pena prevista per la guerra è la guerra. La guerra genera guerra, all’infinito. Il sangue versato chiama altro sangue, il dolore altro dolore, una catena che rischia di non essere mai spezzata». Lo vediamo con la guerra in Ucraina ma anche con l’idea di pena ancora dominante, dove la risposta al male è l’inflizione del male, in una spirale appunto senza fine, «almeno finché qualcuno riuscirà a portare una parola di riconciliazione». Eccola la strada da seguire: la «giustizia riparativa, non più brutalmente vendicativa… ma volta a ricostruire i legami spezzati dal reato, ponendo in comunicazione il reo, la vittima e la comunità nel suo complesso». Le società moderne sapranno incamminarsi verso qualcosa di meno primitivo di una pena che sia solo sofferenza e che, come la guerra, rischia di generare soltanto sofferenza, si chiede Viganò? E l’interrogativo si ripresenta ad ogni cancellatura di questo codice.
«Il condannato all’ergastolo può anche essere provvisorio»: un “ossimoro”, annota il giudice a margine di questa cancellatura, che ci porta nel dibattito sull’ergastolo ostativo. Quel che infatti si salva dalla cancellatura è che una pena per natura perpetua può essere provvisoria. Eppure, così facendo, la cancellatura salva lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui l’ergastolo può davvero essere temporaneo. «Anzi, deve esserlo – scrive Viganò – offrendo al condannato chances reali e concrete di tornare alla libertà».
Certo, la realtà, purtroppo, è un’altra cosa, ammette il giudice costituzionale. Ma intanto l’arte, e non solo, ci dice di cambiare. Secondo la cultura fascista del codice Rocco, tutti gli autori di reato dovevano essere “cancellati”. Soltanto nel 1946, restaurata la democrazia, la pena di morte fu abolita e sostituita con l’ergastolo, ovvero il carcere a vita, il fine pena mai, la pena di morte viva, secondo le diverse definizioni date per descrivere la natura di pena capitale dell’ergastolo. Più in generale, Viganò sottolinea l’impostazione statocentrica di quel codice. Anche quando il reato colpiva la vita, la libertà, in realtà offendeva non la persona ma l’interesse statale a godere pacificamente di questi beni; e se è vero che molto è stato cancellato di quella impostazione, è anche vero che «sono state cancellature parziali, una serie di lifting non sempre del tutto riusciti». La Corte costituzionale ha cancellato molto (pensiamo ai reati di plagio, aborto, adulterio, aiuto al suicidio), «ma non sarà giunto il momento di osare di più e di provare a cancellare l’intero codice Rocco, immaginando un nuovo diritto penale più consono al nuovo contesto democratico e liberale nato dalla Costituzione?».
Isgró lancia una sfida e i due giudici costituzionali la raccolgono. Il Codice civile nasce nel 1942. È il “monumento del diritto delle vicende umane”: il matrimonio, i figli, le relazioni con gli altri, la casa, l’affitto, il mutuo, la proprietà, il lavoro, le successioni, l’impresa, i crediti e i debiti e via dicendo. «Un testo apparentemente tecnico – osserva de Pretis – così protervo nella sua pretesa di definire tutti i fatti della vita e di ingabbiarli nelle sue regole e al tempo stesso così semplice, quasi ingenuo nella sua aspirazione a essere giusto». Ebbene, che cosa resta del diritto e della sua forza, di fronte al segno dell’artista? «Isgrò si impossessa di questo diritto della vita e, cancellandone le parole, ne fa emergere proprio la vita. La legge che con le sue parole si propone di forgiare la realtà è travolta dall’arte che, cancellandola, ne mette in discussione la forza, inventa nuovi messaggi». E la potenza di questi messaggi, osserva ancora de Pretis, «ci fa riflettere sui rapporti tra il diritto e la vita, ci sfida sulle loro contraddizioni, ci provoca, svelando realtà che non volevamo vedere».
“Proposta irrevocabile_la morte” è la prima delle 12 cancellazioni del codice civile. Siamo nel cuore del diritto privato, dove si definisce la nozione di contratto e, tra le formichine dell’artista, le cancellature lasciano sopravvivere solo quattro parole. Apparentemente, nota de Pretis, quelle quattro parole ci parlano proprio della forza del diritto, che ha il potere di rendere irrevocabile una decisione e ha la pretesa di ridurre la morte a una delle tante evenienze, nessuna delle quali può cambiare il corso di quanto prestabilito dalla legge. Ma lo sguardo della vicepresidente va oltre l’apparenza: «Se la legge pretende di superare la volontà dell’individuo, che anche volendo non può tornare sui suoi passi, e ha addirittura l’ardire di superare la morte, la cancellatura ci riporta a una realtà in cui con la morte comunque dobbiamo fare i conti». Ecco allora che quelle quattro parole, nude e unite fra loro, «denunciano la presunzione del diritto di governare fino in fondo ogni cosa, smontano la costruzione giuridica e riportano a una realtà nella quale la vera proposta irrevocabile è la morte».
Isgró spiega di aver cancellato i due codici «perché senza parola non c’è diritto e senza diritto non c’è democrazia». Ma il diritto ha bisogno di chi lo fa vivere nella realtà quotidiana, altrimenti è nudo. E questo forse spiega perché l’opera di Isgró sia destinata alla Scuola della magistratura, cioè a chi il diritto è chiamato a impastarlo, cancellarlo, interpretarlo, applicarlo ai fatti della vita con la cultura della Costituzione. Il giudice, anzitutto. Mai più burocrate, come lo abbiamo conosciuto in epoca fascista, ma uomo o donna “sociale”, immerso/a nella realtà, che interpreta la legge e che porta su di sé il peso di quella immane responsabilità che è il giudicare.
In fondo, le cancellature di Isgró, anche grazie alla lettura di de Pretis e Viganò, sollecitano a liberarci di quei residui di cultura fascista che ancora zavorrano il diritto impedendogli di volare verso la giustizia.