Musica e film
giuseppe culicchia
Non ha paura, Emir Kusturica. Premiato con la Palma d’Oro a Cannes per il suo Underground, con cui nel 1995 raccontò la dissoluzione della Jugoslavia e la guerra (non solo) civile che dopo la morte di Tito aveva insanguinato le repubbliche balcaniche, il regista di Gatto nero, gatto bianco torna in libreria con un testo che sarebbe riduttivo definire un romanzo e che di sicuro farà discutere. Come quando da ragazzo lanciava coperchi dalle finestre di casa, con L’angelo ribelle Kusturica lancia ora le sue parole, e disegnando sulla carta la figura di Pietro Apostolo Speleologo – ovvero dell’amico Peter Handke, raccontato come un uomo che cammina sulla corda mentre a Stoccolma viene premiato con il contestatissimo Nobel per la Letteratura – rende omaggio allo scrittore austriaco ben sapendo che non gli sarà facile passarla liscia. Ma, sarà che si è appena rotto una gamba, non gliene importa.
Kusturica, lei scrive: “In pochi luoghi al mondo le persone si emozionano tanto quando arriva ospite qualcuno che rispetta il loro popolo, in pochi luoghi come in Serbia si accolgono con tanta ospitalità gli sconosciuti”. E questo suo nuovo libro è una sorta di peana in onore di Peter Handke. Non teme le reazioni di chi lo ha condannato per le sue posizioni filo-serbe in riferimento al conflitto scoppiato nella prima metà degli anni Novanta, a cominciare dalle Madri di Srebrenica?
«L’idea di questo libro mi è venuta proprio accompagnando Peter Handke a Stoccolma: un tizio, dopo la premiazione, gli ha detto che aveva intenzione di scrivere la sua biografia. Io ero accanto a Peter e mi sono intromesso: “No, sarò io a scriverla”. Handke mi ha guardato con tanto d’occhi e mi ha detto: “Tu?” E io: “Certo che sì”. Così ecco L’angelo ribelle. In realtà non è esattamente una biografia, ma una sorta di documentario che ho costruito usando la tecnica del montaggio come quando faccio cinema, nel quale, accanto al racconto della premiazione e del viaggio fino a Stoccolma, ho inserito le parti in cui Peter cammina per le strade della Serbia, si spinge nelle sue città e sale sulle sue montagne. Non è stato facile, avevo molto materiale: alla fine è venuta fuori la storia di un artista che ha fatto grande letteratura per più di cinquant’anni, indagando a fondo l’animo umano, rifiutando le regole della struttura narrativa, senza mai seguire la via facile del bestseller ed esponendosi ai pericoli che conosce chiunque non tema di esprimere liberamente le proprie idee. Un atteggiamento che in me suscita sincera ammirazione».
Racconta come a Peter Handke, alla vigilia del Nobel, venne chiesto di dissociarsi dalla Serbia riguardo alla strage di Srebrenica, e che lui si rifiutò di farlo. Scrive: perché uno scrittore avrebbe dovuto fare delle dichiarazioni che non c’entrano con la letteratura?
«Peter Handke nel mio libro è l’uomo che cammina sulla corda. Ed è l’autore, tra gli altri, di un libro come Prima del calcio di rigore. A Stoccolma, lui era proprio in quella situazione. Prima e dopo il conferimento del Nobel è stato accusato di essere un nazionalista, e chiunque lo conosca e abbia letto i suoi libri sa perfettamente che non lo è. Handke è venuto in Serbia quando la Serbia era bombardata dalla NATO, anche lui ha rischiato di finire sotto quelle bombe. In quel momento il mio Paese era come Davide contro Golia, e Handke è stato molto coraggioso, mostrando di essere una persona rara. Ed è stato coraggioso anche nel momento in cui, ben sapendo che in Austria, in Germania e nel resto del mondo sarebbe stato attaccato e sommerso dalle polemiche, si è rifiutato di rinnegare ciò che aveva affermato riguardo alla Serbia. Se lo avesse fatto avrebbe tradito se stesso, e anche i suoi lettori. E così, infine, nonostante tutte le pressioni il Nobel è andato a un vero outsider. Io adoro gli outsider, come José “Pepe” Mujica, o Diego Armando Maradona: un grandissimo calciatore che al di là di questo non aveva paura di esprimere le proprie opinioni, ai miei occhi uno degli ultimi eroi».
A proposito di bombardamenti: nel suo libro racconta che era in Italia con la No Smoking Orchestra quando le ultime bombe cadevano sulla Serbia, e decise di chiamare la tournée “Effetti collaterali”, come vengono definite le vittime civili nei comunicati degli stati maggiori.
«Cambiare le parole, come usa oggi, non cambia le cose. Pensiamo a quanto sta accadendo in Ucraina, al ruolo che ha nel racconto della guerra la propaganda. In realtà viviamo un’epoca in cui il condizionamento da parte del complesso militare-industriale è sempre maggiore. La stessa Hollywood, come sappiamo, è da molti decenni una grande macchina di propaganda attraverso i suoi film di intrattenimento. E fare film indipendenti è sempre più difficile, complice l’avvento delle serie TV. Ma oggi ci sono anche quelli che nel libro io chiamo i “grandi faraoni”, come Jeff Bezos, Bill Gates ed Elon Musk: capaci di manipolare non solo le nostre abitudini e i nostri comportamenti ma anche il nostro pensiero, per mezzo di quella tecnologia che tanto inquietava Heidegger. Da questo punto di vista, perfino una stella del cinema come George Clooney è superata: i miti del nostro tempo sono questi super-ricchi, che ci hanno trasformati in una massa di consumatori a cui è concesso di fare shopping ventiquattr’ore su ventiquattro. Nel giro di pochi anni hanno realizzato la profezia di Dostoevskij in Note dal sottosuolo: se non ci sarà armonia, allora arriverà un mondo di perversione. Guardate quanto sono aumentate le ricchezze di questi personaggi dopo la pandemia, i lockdown, le campagne vaccinali, intanto che la classe media impoveriva e aumentava il numero degli ultimi tra gli ultimi. E tutto passa attraverso la tecnologia, che sempre più velocemente ci sommerge di informazioni spesso inutili, distorte, sottraendoci il tempo che una volta dedicavamo a noi stessi, alla riflessione».
Riguardo alla tecnologia lei scrive che è la fuga da sé: al contrario del carcerato che leggendo un libro al giorno si è sottratto al carcere, noi accettiamo volontariamente di non vedere più né dentro noi stessi né la realtà che ci circonda, forse perché consapevoli di vivere il tramonto di una civiltà, e impotenti di fronte a questo. Eppure a un certo punto aggiunge che forse nell’arte c’è ancora una forma di salvezza.
«Una volta i potenti desideravano essere accreditati come mecenati, e commissionavano opere d’arte pensate per l’eternità. Oggi c’è un sistema totalmente impostato sull’effimero, tutto viene consumato in fretta, le opere d’arte sono diventate installazioni. Eppure, anche nei momenti più bui, c’è chi ha saputo raccontare con lucidità quanto stava accadendo: penso al Malaparte di La pelle, dove scriveva che non c’era bisogno di solidarietà, ma di compassione. Già. Invece nel tempo in cui viviamo, all’indomani di un terremoto terribile, come quello che ha colpito la Turchia e la Siria, nei confronti di questa vengono mantenute le sanzioni. Non è un crimine contro l’umanità? Non è inaccettabile?».
Lei cita l’istinto balcanico per le vendette di massa, la Storia che non passa: e dunque oltre a Srebrenica il massacro di Stari Brod nel 1941, il massacro di Kazani nel 1992/93, la pulizia etnica portata a termine dai croati nei confronti dei serbi con l’Operazione Tempesta nel 1995. Oggi di nuovo l’area balcanica, parallelamente a quanto sta accadendo in Ucraina, appare inquieta. Finirà mai questo fiume di sangue?
«La vendetta è un qualcosa di atavico, basta leggere l’Antico Testamento. Se l’Europa non cambierà la sua politica, rendendosi autonoma dagli Stati Uniti, sarà l’inferno. Perché non c’è un movimento forte che chieda a gran voce di far cessare la guerra in Ucraina? Negli anni Ottanta, quando USA e URSS schieravano i loro missili, essere pacifisti non significava venire etichettati come complici degli uni o degli altri. Oggi siamo in presenza di una fiction globale che omologa le menti, e chi chiede la pace viene accusato di essere complice di Putin».
In Italia è stato Pasolini a metterci in guardia per primo dall’omologazione culturale. Che cosa ne pensa della generazione “woke” e della “cancel culture”, con le proteste per il premio Cesar a Roman Polanski, le polemiche per la pubblicazione dell’autobiografia di Woody Allen, il boicottaggio e le minacce di morte a Joanne Rowling?
«Non è un caso che l’omologazione culturale e la cancel culture arrivino dalla patria dell’i-Phone. Milioni di giovani se ne stanno chini sui loro telefoni, ossessionati da questo o quella influencer, sognando di fare milioni grazie a immagini che sostituiscono la realtà con la pura finzione. Altri invece, in nome dei diritti, invocano la censura. Tornando a Peter Handke, nel mio libro scrivo che non è un deputato del parlamento tenuto a rispondere allo Stato o a un partito politico. Peter Handke è responsabile nei confronti di Goethe, Cervantes, Nietzsche. Se alla vigilia del Nobel avesse cambiato le sue posizioni su Srebrenica, come gli era stato chiesto, non gli avrebbero creduto per primi i suoi avversari. E per me il Nobel non ha premiato solo la sua opera letteraria, com’era giusto, ma anche la figura di un artista che non ha avuto paura di esporsi».