“Hiroshima è come una ferita aperta su tutto il genere umano”
13 Marzo 2023La pagina nasce dal silenzio
13 Marzo 2023di Adriano Favole
Esistono «tre libertà fondamentali, se non addirittura primarie: la libertà di circolare, di disobbedire agli ordini e di riorganizzare i rapporti sociali». David Graeber e David Wengrow (L’alba di tutto, Rizzoli, 2022) individuano nella «libertà di abbandonare la comunità con la certezza di essere ben accolti in terre lontane», il pilastro di ogni forma di libertà umana e insieme un forte antidoto al sorgere di poteri coercitivi e violenti.
Lo fanno sulla scorta di una vasta analisi archeologica, storica e antropologica: in effetti, per gran parte della storia dell’umanità, sono esistiti sistemi di «ospitalità» che hanno permesso a individui e gruppi più o meno numerosi di muoversi in cerca di asilo e rifugio. I due autori definiscono queste aree come «reti» o «catene regionali dell’ospitalità»: un intero continente, l’Australia, sembrerebbe potersi definire in questi termini almeno fino all’arrivo dei coloni inglesi all’inizio dell’Ottocento. I nativi australiani circolavano liberamente in un’ampia area caratterizzata da lingue e usi alquanto diversi, ma unita da una comune struttura mitologica che dava a ognuno una sorta di cittadinanza o di «passaporto» per muoversi sul continente (Bruce Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, 1987). L’organizzazione «totemica» dei nativi dell’America settentrionale sembra svolgesse un ruolo simile: in gruppi linguistico/culturali anche molto lontani si poteva sempre trovare qualche affiliato al clan dell’orso, per dire, che in caso di necessità ospitava il fuggiasco. Ampie catene dell’ospitalità basate su credenze religiose e su giochi come quello della palla sembrano ugualmente caratterizzare l’area andina. Nella ricerca che fonda il metodo etnografico dell’antropologia, d’altra parte, Bronislaw Malinowski (Argonauti del Pacifico occidentale, Bollati Boringhieri, 2011) scoprì che gli isolani delle Trobriand (Papua Nuova Guinea, Melanesia) erano connessi con isole che si trovavano a migliaia di chilometri di distanza da uno scambio di «inutili» (dal punto di vista degli usi concreti) oggetti di prestigio come collane e braccialetti di conchiglie e madreperla. Il circuito del kula — così i nativi definivano lo scambio — sarebbe un indizio contemporaneo di una pratica un tempo molto diffusa.
Prima di dare vita ad aree culturali specifiche e relativamente chiuse, prima di pensarsi come un insieme di «società» diverse e discrete, e ben prima di inventare gli Stati-nazione e i loro rigidi confini, l’umanità sembra avere sperimentato forme di cittadinanza internazionale o se volete forme universali di parentela che permettevano la mobilità su lunghe distanze e soprattutto la fuga. Quando le condizioni economiche, ecologiche o politiche rendono difficile e al limite impossibile l’esistenza, agli esseri umani rimane la possibilità di fuggire o quanto meno il sogno di trovare ospitalità altrove, di poter riconfigurare in modo nuovo i rapporti sociali, di sottrarsi di conseguenza agli ordini di capi e tiranni. E se applicassimo questa idea a quello che sta succedendo nell’epoca contemporanea, dove non solo intere popolazioni vivono in mezzo a privazioni materiali e a costrizioni e a violenze di ogni tipo, ma dove la parte ricca del mondo pontifica sulla necessità di «fermare le partenze», di limitare gli aiuti e il diritto d’asilo (e persino il salvataggio), di impedire insomma l’esercizio della libertà fondamentale, quella di circolare e di andarsene sbattendo la porta? E se provassimo a «de-naturalizzare», ovvero a mettere in discussione l’idea secondo cui la normalità dell’essere umano è vivere nei rassicuranti confini di uno Stato? E se la libertà di circolazione di tutti fosse il vero antidoto al sorgere di dittatori violenti, un modo pacifico di esportare la democrazia?
Siamo una specie in perenne fuga. Come scrisse Marco Aime qualche anno fa, abbiamo piedi e non radici (Verdi tribù del Nord, Laterza, 2012). Siamo nel profondo meticci perché ci muoviamo ed emigriamo da sempre. La libertà di migrare, come hanno scritto Valerio Calzolaio e Telmo Pievani (Libertà di migrare, Einaudi, 2016), andrebbe considerata come un diritto universale dell’essere umano. Per gran parte della sua storia, in verità, l’umanità ha potuto contare su questa libertà intesa come una possibilità concreta, più che come un diritto astratto.
Nelle mie ricerche di campo, mi sono imbattuto spesso in popoli e gruppi fuggiaschi e in pratiche dell’accoglienza. In Polinesia occidentale la possibilità di fuga si incarnava nell’istituzione del tavaka. Individui solitari, o piccoli gruppi in conflitto col resto della popolazione, potevano prendere il mare sulle loro piroghe, cercando altrove asilo o un’isola vuota su cui ricostruire nuovi rapporti sociali. I diritti d’approdo facevano parte di una conoscenza diffusa e di possibilità di asilo riconosciute. Molte isole dell’Oceania sono oggi il frutto di questi complessi innesti e movimenti e a stento si trova una sola isola che sia il frutto di uno sviluppo endogeno. Ovviamente non sempre i fuggiaschi erano ben accolti, ma in molti casi questi arrivi sono all’origine di dinastie di capi. La figura dello stranger king, del «re straniero» che assume il potere politico attraverso un patto con i maîtres de la terre, i primi arrivati, è una figura molto diffusa tanto in Oceania come in Africa (David Graeber e Marshall Sahlins, Il potere dei re, Cortina, 2019).
Quando la Terra presentava ancora ampi margini di insediamento, la fuga approdava spesso in aree non esplorate o poco sfruttate: sull’isola di Réunion, nell’Oceano Indiano, le popolazioni Kafr si presentano oggi come i discendenti di schiavi fuggiaschi che trovarono rifugio nelle aree vulcaniche interne. A volte sono i non umani a essere ospitali, come ben sanno i migranti che cercano di arrivare in Europa attraverso le foreste dell’Est o che cercano di arrivare in Francia attraverso i boschi delle valli alpine. In modo simile, i «figli dei fiumi» o bushinengé della Guyana francese, sono discendenti dei marrons, schiavi fuggiti dalle piantagioni che andarono a creare libere repubbliche lungo le complesse ramificazioni fluviali dell’Amazzonia.
Senza scomodare società che a molti parranno esotiche e lontane (non per questo non esistono!), quanti discendenti di italiani ho incontrato in Francia e in Oceania i cui padri o nonni fuggirono altrove ai tempi del fascismo? Quanti italiani hanno trovato asilo e rifugio altrove in epoche di carestie o penurie o semplicemente perché hanno potuto lasciare il nostro Paese in cerca di fortuna altrove?
Viviamo in democrazie alquanto schizofreniche. A differenza di quanto si potrebbe pensare a prima vista, il mondo contemporaneo non ha affatto abbandonato l’antica idea delle catene regionali dell’ospitalità. Per certi versi in realtà è proprio questa la cifra fondante di quella che, con una bella dose di ipocrisia, chiamiamo «globalizzazione». Una parte di umanità circola e viaggia senza sosta: cercando altrove nuove opportunità o semplicemente per svago. A volte una fuga temporanea da routine eccessivamente inglobanti, come avviene per il turismo. Proprio in questo anno post-pandemico, molti osservatori si attendono un nuovo record di viaggi aerei intercontinentali. Una parte di umanità dunque ha realizzato, nonostante gli Stati e i loro confini, una nuova configurazione della possibilità di fuga e dell’accoglienza altrove, grazie a passaporti «forti» e accettati un po’ ovunque (e alle carte di credito ovviamente). La schizofrenia sta nel fatto che una parte di questi flaneurs contemporanei sostiene con disinvoltura che, al contrario, il resto del mondo dovrebbe essere «incoraggiato» a rimanere nei propri confini. Anzi, dovrebbe persino sentire la responsabilità di stare a casa per costruire una società migliore e combattere i dittatori. Per quell’umanità figlia di un dio minore dipingiamo la «normalità» come un mondo in cui ognuno rimane a casa propria, contento della propria «identità». Un intero continente, l’Europa, si affanna così a «limitare le partenze» e a contrastare gli «scafisti» invece di chiedersi con quali politiche (asilo, corridoi umanitari, flussi regolari di lavoratori, collegamenti aerei) ripristinare, per tutti e in primo luogo per chi scappa da guerre e persecuzioni (i sopravvissuti di Crotone, è bene ricordare, arrivavano da Siria, Iran, Afghanistan e Pakistan), l’antico diritto alla fuga.
Impedire la fuga è il miglior dono che si possa fare ai regimi non democratici, i quali hanno da sempre lavorato a questo obiettivo costruendo muri, limitando i passaporti, imprigionando i dissidenti. La libertà di fuggire, di andarsene, di non obbedire più agli ordini e di riconfigurare altrove i propri rapporti sociali è una leva imprescindibile. La democrazia si nutre di diritti per chi rimane, ma non è sostanziale senza vie di fuga o quando si impedisce a mezzo mondo ogni via di fuga.
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