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Il fondatore del Bisonte: la moda, la rabdomanzia e un nome sbagliato
Quest’intervista poteva non esistere, o durare appena il tempo di uno scambio di convenevoli. Perché mentre Wanny Di Filippo inizia a parlare del suo interesse per la rabdomanzia e la radioestesia, decide di tirare fuori il pendolo che porta sempre con sé e lo lascia oscillare sopra il tavolo. Dopo qualche istante il pendolo inizia a girare in senso orario. Lui dice che è un buon segno: quindi l’intervista può continuare. Infatti, se fosse oscillato in senso opposto, antiorario, probabilmente se ne sarebbe andato. Il fondatore de Il Bisonte, storica azienda fiorentina, un’eccellenza per le borse e gli accessori in pelle, oggi ha 78 anni. Da tempo ha venduto l’impresa e ha regalato alla città un palazzetto (il PalaWanny, appunto) dove gioca la sua squadra di pallavolo. E si è trasferito sopra Figline, località Ponte agli Stolli, dove ha un vicino di casa particolare, Sting. «Abita di fronte a me, tutti gli anni per la vendemmia organizza una festa, invita i vicini e ci canta un po’ di cose».
Ma ripartiamo dal pendolo. Come mai lo porta sempre con sé?
«Ho scoperto questo mondo, un mondo fantastico, grazie a un mio amico rabdomante, Angelo, che avevo chiamato per cercare l’acqua nella mia casa di Pozzolatico. Per scavare un pozzo mi chiedevano 250 mila lire al metro: non potevo sbagliare e Angelo ha azzeccato il punto giusto alla prima. Quel pendolo lo porto sempre con me, mi aiuta anche a capire se qualcosa mi fa male, oppure se sono allergico a qualche cibo che mangio. Se gira in senso antiorario significa che c’è qualcosa che non va. Mi è successo con la Schiacciata alla fiorentina: spesso stavo male quando la mangiavo allora ho fatto il pendolo. Indovini in che direzione ha girato. L’ho fatto anche agli inglesi».
Quali inglesi?
«Quelli a cui ho venduto l’azienda. Trenta milioni. Mi guardavano con due occhi così. Per fortuna il pendolo ha detto di sì: avevo una certa età, non ce la facevo più. Dopo loro l’hanno venduta ai giapponesi per qualche milione in più».
In Giappone è una celebrità, le hanno dedicato anche un manga.
«Amo il Giappone e la sua cultura, ci sono stato per tutte le inaugurazioni dei miei negozi. A un certo punto decisero di farmi protagonista di questo fumetto. Si chiama Le memorie di iris . La storia è questa: una sera entro nel mio museo e trovo un bambino che mi chiede di seguirlo. Mi prende per mano, passiamo attraverso la finestra e finiamo al museo Stibbert. A quel punto mi chiede di aiutarlo a trovare lo tsuba (la parte che separa lama e manico, ndr ) della katana di suo padre, dove appunto c’era un fiore di iris».
Anche a lei piace disegnare.
«Ai tempi del militare facevo dei bassorilievi in polistirolo e poi li dipingevo, li usavamo per abbellire le stanze. Quando da ragazzo lavoravo come apprendista elettrauto seguivo una scuola di disegno in Francia, per corrispondenza. Mi mandavano le correzioni per posta. Più tardi ho lavorato per una società che mi chiedeva di dipingere cartoline dei monumenti di Firenze con gli acquerelli. Il problema era che le pagavano 10 mila lire l’una e su cento ne andavano bene una trentina, così ho smesso. Dipingevano tutti, allora mi sono messo a lavorare la pelle».
Come ha iniziato?
«Avevo iniziato a lavorare come rappresentante di pezzi di ricambio per auto e mi spostavo in tutta Italia, dal nord (Wanny Di Filippo è nato ad Adria, Rovigo, ndr ) alla Puglia, e poi stavo sei mesi in Sardegna. Era il ‘67, l’isola era bellissima, non c’era niente. Era un buon posto per nascondersi se eri un ricercato e infatti qualcuno viaggiava con la pistola sotto al sedile. Io frequentavo gli hippy sulla loro spiaggia ed è lì che ho iniziato a cucire. Compravo la vacchetta a Sassari e lavoravo zaini, cinture, tutto in pelle. La lavorazione hippy era come quella degli indiani d’America, non c’era il filo, ma si cuciva con le stringhe di pelle».
L’azienda com’è nata?
«Sono un grande appassionato di biliardo, ne ho uno in ogni casa e ho anche provato a partecipare ai campionati italiani. In Sardegna, giocando a biliardo, ho conosciuto il padre della mia futura moglie. Era di Prato: mi sono spostato in Toscana insieme a lei, però ho scelto Firenze per aprire la prima bottega».
Dove?
«In piazza Rucellai, in una cantina interrata che era parecchio umida. Per un mese non ho visto nessuno, poi un giorno un signore ha comprato un portafoglio in vacchetta ed è iniziato il passaparola. A un certo punto lì accanto, in palazzo Corsini, si è liberato il fondo di un sarto e mi ci sono trasferito».
È vero che un giorno è entrato anche lo stilista Ralph Lauren?
«Passava da me a comprare i regali di Natale per gli amici. C’era un’azienda vicino alla bottega dove si rivolgeva per le camicie ed era di una mia amica, che una volta lo ha portato da me. Un giorno sono andato io a trovarlo a New York e mi sono accorto che mi copiava le borse. Meglio: diciamo che aveva preso ispirazione…».
Il primo negozio all’estero?
«Ho cominciato a esportare molto in America e in Francia e dopo ho aperto un negozio a Parigi, vicino al Louvre. Ci volevano 10 milioni di lire, però non se ne potevano esportare più di 500 mila: ho passato la dogana con 10 milioni arrotolati nel foulard che portavo al collo, un momento incredibile».
Che prezzi faceva, per l’epoca?
«Devo dire prezzi abbastanza popolari, non eccessivi. Però guadagnavo e l’importante era quello perché mi permetteva di andare avanti. Mi ricordo ancora di quando ho partecipato a una fiera della moda a Firenze: avevo preso uno stand per due giorni, ma dopo il primo avevo già venduto tutto».
Perché ha scelto il bisonte come simbolo?
«Ho voluto creare un’immagine che fosse riconoscibile da tutti, anche da un bambino che non sa leggere. È un animale che mi affascina, in palazzo Corsini ho una collezione di oltre duemila pezzi sul bisonte: cristalli, ceramiche, dipinti… È un museo, ma il palazzo non si può aprire al pubblico, chi vuole vederlo deve chiamarmi. All’inizio, invece, avevo dato all’azienda il mio nome, Wanny».
Ma è il suo nome di battesimo?
«Mia madre voleva che lo fosse, però il prete si è rifiutato perché non esisteva San Wanny. Allora mi hanno dato il nome di mio nonno, Antonio, ma se mi chiamano così nemmeno mi giro. Negli atti ufficiali sono Antonio Di Filippo, detto Wanny. Inoltre, in pochi sanno che in realtà sono nato il 14 febbraio del 1945, ma quando mia nonna è uscita per registrarmi è dovuta rientrare per il pericolo delle bombe così due giorni dopo, il 16, ha mandato un contadino. Il mio è un lungo compleanno (ride, ndr )».
Qual è la creazione che più la identifica?
«La caramella, la prima borsa che ho cucito. Ero in Sardegna, ho visto una sdraio rotta con una tela a righe. L’ho presa, l’ho legata dalle parti, ci ho cucito sopra una zip e le maniglie. È ancora in vendita, di tutti i colori, anche in pelle. Bisogna sempre uscire dagli schemi, osare. Io facevo tutto quello che mi veniva in mente: come fai a emergere se fai solo quello che ti insegnano?».
Perché si è buttato sulla pallavolo?
«Da ragazzo in realtà giocavo a basket, mi sono avvicinato alla pallavolo dopo aver aperto il laboratorio di Pontassieve: un mio amico aveva una squadra in B2, a San Casciano, e mi ha chiesto una mano. Abbiamo cominciato a vincere, io mi sono appassionato e siamo andati avanti. Oggi siamo in serie A, mi piacerebbe arrivare ai playoff».
Ha anche regalato una nuova casa alla squadra, un regalo costoso…
«Il palazzo è costato 10 milioni, ma sono molto contento di aver fatto qualcosa per la comunità. I soldi non li avrei portati nella cassa da morto. È bellissimo e lo stiamo insonorizzando per iniziare a ospitare concerti».
Diciamo che il suo stile è inconfondibile, quanti capi ha nell’armadio?
«Per me il colore è la vita, vedo gente vestita completamente di grigio, o di nero: che tristezza. Nell’armadio ho almeno quaranta cappelli, di tutti i colori. E poi le giacche del Casentino: verdi, gialle, rosse… anche queste di ogni colore. Ne porto sempre una. Mi ricordo ancora quando andavo a vedere le partite di pallavolo con due scarpe di colori diversi, tutti mi guardavano con due occhi grandi così…»
C’è ancora qualcosa che vorrebbe fare?
«Mi manca viaggiare, l’ho fatto per tutta la vita, sono andato ovunque, ma non ci riesco più. Solo a fare la valigia mi sale l’ansia. E pescare le trote nei torrenti, un’altra grande passione, conoscevo a memoria tutti i fiumi dell’Appennino. Non è più il caso di saltare da un masso all’altro. Un posto dove mi piacerebbe andare adesso è il Trentino, dove c’è un territorio che ha mantenuto la sua identità, qua costruiscono ovunque».
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