il personaggio
bruno ruffilli
Ars longa, vita brevis: quella di Ryuichi Sakamoto si è spenta il 28 marzo. Ad annunciarlo, con questa citazione latina, è stato ieri il suo management. Il pianista e compositore giapponese era da tempo malato di cancro, ma continuava a lavorare: solo tre mesi fa, per il suo 71esimo compleanno, è uscito 12, un’ora di musica tanto rarefatta e serena da non sembrare più di questo mondo. Tra sparse note di piano e sintetizzatore, l’unica nota umana è il respiro di Sakamoto, troppo forte perché sia un caso.
Già Async, uscito nel 2017, era una riflessione sul tema della morte, il suo vero testamento in musica e parole. «Ho cercato di dimenticare tutte le regole e le forme. Volevo semplicemente registrare solo quello che volevo sentire, un suono o una musica, non importa. Potrebbe essere l’ultima volta». Da dimenticare, o meglio disimparare, Sakamoto aveva molto: la fascinazione precoce per Debussy e John Cage, gli studi di composizione ed etnomusicologia a Tokyo, gli otto album con la Yellow Magic Orchestra, il lungo sodalizio con David Sylvian. E ancora: la ripresa di canzoni tradizionali giapponesi e la passione per la bossanova (Casa, 2001), le sperimentazioni con Alva Noto, in costante dialogo tra pianoforte ed elettronica. Tante collaborazioni, quasi un’enciclopedia della musica colta di questi ultimi cinque decenni: David Byrne, Brian Eno, Laurie Anderson, Robert Wyatt, Roddy Frame, Arto Lindsay, Youssou N’Dour, Thomas Dolby, Iggy Pop e altri.
Chi è il vero Sakamoto? «Sto ancora cercando – disse a La Stampa qualche anno fa – , non so chi sia il vero me stesso. Ho provato a fare una lista della musica che mi piace, e ne è venuto fuori un mix di africana, asiatica, classica e altro. Forse questo è quello che sono».
Eclettico, curioso, aperto a mille sperimentazioni, Sakamoto va ricordato anche per le sue colonne sonore: ha all’attivo un Oscar, un Grammy, due Golden Globe, e ha lavorato tra gli altri con Bertolucci, Almodovar, Stone, De Palma, Iñarritu. È stato pure attore, a fianco di David Bowie e Takeshi Kitano, in Furyo. Del film di Oshima ha scritto anche la musica, di cui fa parte Forbidden Colors (cantata da David Sylvian), che rimane il suo brano più famoso. È compreso ne L’ultimo imperatore; ma pure in un video di Madonna (Rain), alternando cultura alta e pop, un’opera multimediale (Life) e le soundtrack per videogiochi e cartoni animati.
Ma Sakamoto era anche un uomo del suo tempo, un artista consapevole delle sue scelte, che già vent’anni fa si impegnava perché i suoi tour fossero a impatto zero, che si è mosso per bonificare le zone dove si trovano ancora mine antiuomo, che si è speso per il movimento No Nuke dopo la tragedia di Fukushima. «La musica – diceva – non è politica, ma gli artisti possono usare la loro influenza per far riflettere».
A cavallo del terzo millennio, mentre Napster cominciava a mettere in crisi il mercato discografico tradizionale, Sakamoto ragionava di copyright e diritti digitali; appena qualche mese fa ha messo in vendita gli NFT delle singole note di Forbidden Colors.
Da buon giapponese un po’ nerd, non ha mai nascosto la sua fascinazione per la tecnologia: con la YMO non solo adoperò l’elettronica per riprodurre suoni reali e inventarne di nuovi, ma fu il primo a usare la parola «techno» in relazione alla sua musica. Il secondo album della band, Solid State Survivor (1979), si apre con un brano intitolato Technopolis, nel 1981 arriva Technodelic, nel 1983 The Spirit of Techno. Techno proprio nel senso che avrà dieci anni dopo: musica elettronica strumentale da ballare, con buona pace dei Kraftwerk, che al Techno Pop come definizione concettuale arriveranno solo nel 1986. «Trent’anni fa le macchine digitali non potevano comunicare tra loro, e allestire uno studio poteva costare un milione di dollari, oggi si possono fare le stesse cose con un iPad. Una forma di democrazia musicale mai vista», diceva Sakamoto.
Che però tornava sempre al pianoforte: Playing the Piano si chiamavano i suoi concerti, che negli ultimi tempi erano diventati appuntamenti in streaming video. Era spesso accompagnato da altri musicisti, come nel caso del memorabile trio per il tour di 1996. Altre volte era da solo, ma sul palco c’erano due pianoforti a coda: uno lo suonava Sakamoto, all’altro non c’era nessuno. Il pubblico vedeva i tasti alzarsi e abbassarsi, perché il secondo piano riproduceva i movimenti delle sue dita sulla tastiera. Sakamoto duettava con se stesso, la tecnologia si trasformava in magia.