Centottanta album, una carriera quasi settantennale, una musica personalissima che ha ispirato, fra gli altri, Miles Davis negli anni ’50: questa è l’eredità sonora che il pianista afroamericano Ahmad Jamal ha lasciato al mondo del jazz e non solo. La sua scomparsa – a novantadue anni – è avvenuta il 16 aprile ad Ashley Falls (Massachusetts). In Italia è stato spesso ospite, fino al 2011, della rassegna Umbria Jazz; l’Europa, e in particolare la Francia, amava molto quest’artista dalla longeva creatività e dal linguaggio originale. Nel 2007 fu premiato dal governo transalpino con l’Ordre des Arts et des Lettres. Del resto la sua lunghissima carriera ha avuto, nel continuativo successo, due fiammate più intense: negli anni ’50 negli Stati uniti e nel decennio ’90, negli Usa e nel Vecchio Continente.
Nativo di Pittsburgh (1930), a diciassette anni Ahmad Jamal debutta come professionista e nel 1950 fonda i Three Strings: al suo scintillante piano abbina la chitarra di Ray Crawford ed il contrabbasso di Eddie Calhoun, in una formula ripresa dal celebre Nat King Cole Trio. Sarà la dimensione del terzetto a rimanere architrave portante di tutta la carriera di Jamal. Il trio miete i primi successi con un arrangiamento del traditional Billy Boy; nel 1956 il pianista elimina la chitarra ed inserisce la batteria. Con Israel Crosby e Vernell Fournier dà, così, vita ad un organico simbiotico che nel 1958 incide l’album A.Jamal at the Pershing: But Not for Me (Argo): permane nelle classifiche di vendita della rivista Billboard per più di cento settimane, un successo. Seguono un’amplissima serie di concerti e registrazioni.Il suo stile è stato fonte d’ispirazione per artisti come Miles Davis e Bill Evans

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Ghana, il jazz è cosmopolitaGIÀ ALLORA Ahmad Jamal costituisce un modello innovativo e una fonte di ispirazione per artisti come Miles e Bill Evans. Virtuosismo, sobrietà e sofisticazione sono solo l’aspetto epidermico del pianismo del leader e dell’interplay del gruppo. Davis lo comprende subito: «Mi avevano colpito – scrive nell’autobiografia – il suo concetto di spazio, la sua leggerezza di tocco, il modo in cui metteva insieme le sue note (…). Amavo veramente il suo lirismo al piano (…) e il modo in cui creava spazio nella voce di insieme del gruppo». Il trombettista afferra qualità che discendono da una concezione diversa proprio dello spazio, dalle dinamiche interne ai brani e dalla loro dialettica tensione/distensione, dal giustapporsi di pieni e vuoti, dall’uso strutturale del silenzio, dalle armonie semplificate in cui si inseriscono pedali, dal fraseggio a tratti accordale, dall’uso inedito dei registri. La musica ‘quietamente’ rivoluzionaria di Jamal si dispiega in brani originali (Ahmad’s Blues, Seleritus, New Rhumba) come in geniali risignificazioni di standard, da It Could Happen To You ad Old Devil Moon. Il critico musicale francese Xavier Prévost afferma che «sotto un apparente conforto (si) dissimula un senso del rischio e della rimessa in gioco la cui influenza sarà decisiva, specialmente su Bill Evans». E parliamo di un artista che, a sua volta, reinventerà il piano jazz trio.

LE CASE DISCOGRAFICHE fanno a gara per avere sotto contratto i gruppi di Ahmad Jamal: se ne contano almeno una decina, dalla Argo fino alla Birdology/Dreyfus passando per Impulse ed Atlantic. Certo il pianista (diventato mussulmano nel 1950, il suo nome originale era Frederick Jones) sconta le difficoltà dovute al divorzio, all’abbandono/tradimento da parte dei suoi sidemen per il trio di George Searing (1962), alla pausa discografica tra il 1973 e il 1975. Negli anni ’90, ormai più che sessantenne, vive una nuova giovinezza in ambito sia concertistico che discografico; in più allarga il trio ospitando, dal vivo e in sala di incisione, vari solisti di valore come il trombettista Donald Byrd e i saxtenoristi George Coleman e Stanley Turrentine che cambiano le dinamiche interne al consolidato organico (lo accompagnano spesso il bassista James Cammack e il batterista Idris Muhammad).
Se Miles Davis ha cambiato la sua estetica, Ahmad Jamal vi è rimasto fedele senza essere autoreplicante, con «una musica di grande classicità, ma sempre capace di spiazzare l’ascoltatore» (Prevost). Il critico musicale Sergio Pasquandrea (autore di una pregevole Breve storia del pianoforte jazz) lo definisce «uno dei grandi originali del jazz. Un artista che, a conti fatti, somiglia soltanto a se stesso». Si possono ascoltare Ahmad Jamal à l’Olympia (1992), Big Byrd (1996) o A Quiet Time (2009) per verificare; del resto anche gli Usa lo hanno celebrato quale «maestro» con il premio del National Endowment for the Arts (1994) e con il Grammy Lifetime Achievement Award del 2017.