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È l’ora di Roberto Calderoli: uno dei pochi colonnelli sopravvissuti al turbolento cambio di regime nella Lega, da quella puramente nordista di Umberto Bossi al nuovo partito “nazionale” di Matteo Salvini. Alla nuova versione della Lega ha portato in dote il molto discusso disegno di legge per l’autonomia regionale differenziata: cioè il nuovo e più pragmatico vestito del vecchio secessionismo padano, depurato dal folklore delle ampolle e dei matrimoni celtici. Non sarà mai diventato un leader, ma non sarebbe saggio sottovalutare il frenetico attivismo dell’attuale ministro per gli Affari regionali e le autonomie, esperto e astuto navigatore dei marosi del parlamento, che ora promette di mettere mano alla legge elettorale per i Comuni. In che modo? Abolendo di fatto il ballottaggio (per la precisione: limitando moltissimo i casi nei quali verrebbe disputato), previsto finora nei Comuni oltre i quindicimila abitanti, quando nessun candidato sindaco superi il 50% dei voti al primo turno.
Non avendo mai dimenticato la lezione di quel deputato alla Costituente (di militanza socialista) che argomentò, nella parte del dibattito dedicata alle leggi elettorali, che il collegio uninominale “fu sempre scuola di incultura politica”, non ce la sentiremmo di rimproverare troppo severamente Roberto Calderoli per essere l’autore materiale del Porcellum, ovvero della pessima legge elettorale a liste bloccate, formalmente proporzionale ma con robusto premio di maggioranza, che lui stesso definì “una porcata” e che soppiantò, per volere di Silvio Berlusconi, il cosiddetto Mattarellum. Quest’ultimo, per l’appunto, aveva introdotto un sistema fondato in prevalenza sui collegi uninominali. Tuttavia Calderoli non si muove mai a caso: mentre il governo Meloni inciampa in parlamento sulle sue tensioni interne, e annaspa nelle ristrettezze imposte dalla fase economica e dal ritorno in auge della vecchia austerità europea (qui qualche nota sulla riforma proposta dalla Commissione Ue), lui lavora per consolidare la presa della coalizione sul potere anche a livello locale.
La maggioranza di destra-centro ci aveva provato un paio di mesi fa al Senato con un emendamento a una leggina abbassa-quorum per le elezioni comunali. Benché il blitz fosse poi rientrato, il capogruppo leghista a palazzo Madama, Massimiliano Romeo, aveva messo bene in chiaro lo spirito col quale viene affrontata la questione, annunciando che la norma ispirata alla legge elettorale della Sicilia per le comunali siciliane sarebbe stata riproposta “alla prima occasione possibile”, perché “questa è una volontà della maggioranza”. Ma la pietra dello scandalo è stata la vittoria a Udine di Alberto Felice De Toni, candidato di Pd, Alleanza verdi-sinistra e centristi di Azione-Italia viva, che al ballottaggio ha ribaltato il risultato del primo turno favorevole al sindaco uscente (leghista) Pietro Fontanini. Il successo di De Toni è maturato anche grazie all’accordo politico con il terzo classificato, Ivano Marchiol, candidato con due liste civiche e con il Movimento 5 Stelle e forte di un consenso personale oltre il 9%.
Da qui il nuovo slancio che Calderoli ha impresso alla discussione, indicando la soluzione per minimizzare il rischio che una maggioranza relativa non si trovi poi le leve del potere nelle sue mani. A Udine “chi ha vinto ha preso meno voti di quanti ne aveva presi il sindaco uscente al primo turno” – ha spiegato in un’intervista al “Corriere della sera” un irritato Calderoli. Che ha quindi proposto la sua soluzione: il sistema delle elezioni regionali, “con premio di maggioranza per chi supera il 40%”. Una percentuale che, per un curioso scherzo del destino, al momento sembra disegnata su misura per la coalizione che guida il governo nazionale, stabilmente quotata oltre il 45% nei sondaggi, mentre sull’altro versante una coalizione concorrente non esiste e potrebbe non nascere per molto tempo, dopo la divaricazione creatasi fra Pd e 5 Stelle sulla guerra e sulla fine del governo Draghi. Alle prossime comunali, in programma il 14 e 15 maggio, si segnalano accordi al primo turno fra il partito di Elly Schlein e quello di Giuseppe Conte solo in un terzo dei Comuni medio-grandi chiamati al voto. Di fronte a questo scenario, con la nuova legge che Calderoli punta a varare, gli enti locali potrebbero diventare d’un tratto un feudo inattaccabile delle destre.
Nessuna legge elettorale è sacra, i costituenti rinunciarono a costituzionalizzare il proporzionale e, del resto, abbiamo visto in questi anni che anche una qualsiasi norma costituzionale può essere travolta dalla moda del momento (come nel caso del taglio dei parlamentari) o dall’irresponsabile avventurismo dei gruppi dirigenti (è l’esempio della riforma del Titolo V, che ha aperto la strada ai progetti neo-secessionisti dell’autonomia differenziata). Tuttavia, a trent’anni dal varo della legge 81, che disciplina le elezioni comunali, è fuor di dubbio che sia stata una delle meno criticate. Certo, non è il caso di mitizzare la figura del sindaco-manager, che riduce l’assemblea comunale al “mero ruolo di ratifica”, come ha osservato forse con un pizzico di esagerazione Pino Pisicchio, un democristiano di lungo corso oggi fuori dal parlamento. Tuttavia la legge sull’elezione diretta dei sindaci ha prodotto amministrazioni in larga parte stabili, consentendo al tempo stesso la sopravvivenza di un minimo di pluralismo, grazie al meccanismo sostanzialmente proporzionale nel voto sulle liste al primo turno. In più, potenzialmente riduce l’asprezza caricaturale di certe competizioni elettorali (fra simili), e costringe a prendere in considerazione il compromesso (al ballottaggio), “necessità e non difetto” della democrazia, come ha osservato Roberto D’Alimonte, uno dei più influenti studiosi della materia elettorale. D’Alimonte ha stigmatizzato “la solita brutta storia di riforme proposte per convenienza di parte”.
Ma a parziale discolpa di Calderoli, e dell’attuale coalizione di governo, va detto che, in particolare in materia di leggi elettorali, l’Italia ha sviluppato negli ultimi anni una tradizione di taglia e cuci mirati (l’ultimo, il Rosatellum, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei promotori, rendere inoffensiva l’anomalia 5 Stelle e li portò, invece, al clamoroso successo del 2018). Quindi, se dopo il Porcellum ci toccherà il Porcellinum della nuova legge su misura per le esigenze di una parte politica, gli oppositori, quantomeno molti di loro, non potranno menare scandalo più di tanto.