Il Salone del libro non è una bancarella, ma un confronto di idee nella libertà intellettuale degli autori che incontrano i loro lettori. Dunque un appuntamento in cui si riflette il momento del Paese, perché la cultura fa parte della realtà, non solo della sua rappresentazione. In questa realtà c’è anche il dissenso e la contestazione al potere, che ha il diritto di manifestarsi purché non impedisca l’espressione del pensiero altrui. Potremmo fermarci qui: ma dietro i fatti di Torino c’è qualcosa in più, su cui vale la pena di riflettere. È la concezione di una rassegna editoriale come un territorio da conquistare, una postazione da espugnare, perché vista non come un luogo di dibattito aperto ma come l’avamposto di una vera e propria battaglia tra fazioni, che riduce la cultura a semplice strumentazione ideologica, struttura servente della politica, in diretta emanazione dai partiti. Cosa sta succedendo? Proviamo a capirlo.
Drogati dai sondaggi quotidiani, che danno l’illusione di misurare costantemente lo stato di salute dei partiti più che degli italiani, pensavamo di vivere lo spazio tra un’elezione e l’altra come un tempo sospeso in attesa della prima vera resa dei conti, le Europee del 2024. Ma in realtà proprio in questa fase di passaggio si gioca una partita decisiva, perché incide negli orientamenti profondi che influenzano le opzioni dei cittadini, danno sostanza alle loro scelte e motivano infine le loro preferenze, perché tengono insieme una rappresentazione del mondo e l’auto-rappresentazione di sé stessi: è la sfida per la conquista del senso comune dominante, che viene prima, vale maggiormente e dura più della scelta elettorale, anche perché la determina. Ed è appena incominciata.
Il consenso è l’ambito nel quale si certifica la prevalenza di un partito o di uno schieramento, ed è naturalmente decisivo per misurare le maggioranze e le minoranze nei parlamenti, in un rapporto da cui nascono i governi: per definizione è volatile, in democrazia è contendibile, in natura è mobile, tuttavia è la vera dotazione di potestà legittima per chi ha vinto le elezioni. Il senso comune è un’area più ampia in cui si incontrano sentimenti, pregiudizi, aspettative, emozioni e timori, e combinandosi insieme generano tendenze e impulsi che formano un sentire collettivo. Il consenso è una manifestazione politica, il senso comune è un’espressione sociale: chi lo conquista, e più ancora lo incamera e lo riproduce, agisce in sintonia col sentimento diffuso della popolazione, lo interpreta e lo rappresenta. Nei passaggi di crisi acuta la produzione di senso da parte del Palazzo non incontra i bisogni e le aspirazioni del Paese, e viene rifiutata e sormontata da un’interpretazione autonoma del momento da parte della società, attraverso le tendenze che la guidano. Nelle fasi egemoniche, invece, il potere si rivela il più grande produttore legittimo di senso comune e grazie a questo insediamento domina il mercato del consenso.
Oggi siamo esattamente davanti a una prova di questo genere. Mentre l’inventore della nuova era, Silvio Berlusconi, faceva politica con la dotazione impropria dell’universo televisivo (tre canali per controllo proprietario, tre per controllo politico) e poteva delegare la creazione di una vita-palinsesto degli italiani alle sue aziende dell’immaginario, accontentandosi di staccare i dividendi elettorali che ne derivavano, Giorgia Meloni vuole entrare nel primo mercato per sfidare la sinistra proprio sulla capacità di dominare il senso comune, di interpretarlo e di generarlo.
Per la prima volta nella storia del dopoguerra ladestra estrema che ha vinto le elezioni prova ad andare oltre, e si assegna questo compito ambizioso: diventare titolare della ricerca di significato della fase, soggetto autorizzato e riconosciuto a produrre percezione collettiva e coscienza comune, titolare del potere di battezzare i fenomeni e di dare un nome alle cose, cioè fondatore e interprete di una nuova cultura, coerente con la visione del mondo, dell’Occidente, dell’Europa, del Paese e della democrazia di questa radicalità populista, sovranista e nazionalista che governa l’Italia.
Fino a ieri questa capacità culturalmente sovrana di decifrare e definire ciò che stavamo vivendo era riconosciuta alla sinistra, sia che fosse al governo o all’opposizione. Sembrava avere in mano le arti, la letteratura, il cinema, l’editoria e quindi la strumentazione per leggere, tradurre e reinterpretare il mondo.
Col tempo questa facoltà quasi metafisica si è confusa dal punto di vista identitario in un generico indistinto democratico, e si è consumata dal punto di vista politico logorandosi nei concetti di responsabilità, di disciplina alle regole, di osservanza di vincoli esterni di cui si fatica spesso a rintracciare le ragioni: tutti obblighi doveristici autoimposti per coerenza, ma che nella moderna dannazione delle élite sono diventati capi d’accusa per il cittadino escluso, indizi di una soggezione gregaria, prove di un’ossessione procedurale continua, conferme di un’assimilazione rinunciataria.
Di conseguenza le agenzie culturali che operano tradizionalmente nel campo della sinistra si sono atrofizzate, o quantomeno sono impallidite e faticano a proiettare un mondo e la sua visione.
L’immaginario è stato mangiato dalla fatica del quotidiano: ma senza la suggestione culturale la sinistra è disarmata proprio nelle idee e nel pensiero, il suo moltiplicatore ideale, e infatti dopo la sconfitta sta ancora ricostruendo la trincea del “primum vivere”, rimandando la filosofia.
È qui che s’infila la pretesa egemonica della destra.
È come se Meloni avvertisse la precarietà di una politica basata su partiti fragili, nella contesa di un elettorato volubile perché sradicato, che sceglie non sulla base di una visione ma di una delusione, affidando alla ribellione la moderna rappresentanza. Da qui l’urgenza di cercare radici più solide non in un passato improponibile (che viene comunque conservato come bene rifugio ereditario) ma nella fondazione di una cultura alternativa a quella dell’establishment liberal-democratico occidentale, coltivando pulsioni anti-sistema in Europa e in Italia, per trasformare il partito underdog in una forza di governo ma insieme di alternativa.
L’obiettivo appare sproporzionato rispetto alla classe dirigente che deve raggiungerlo: per ora Meloni non ha attirato nel suo progetto intellettuali, studiosi e artisti estranei al suo mondo. Il mondo di una destra che crede di far cultura occupando le postazioni di comando, come conferma il “rullo di tamburi” per l’addio di Lagioia a Torino; e come dimostra l’eterna occupazione della Rai, sembra fermo all’idea che la televisione sia ancora la scatola magica del berlusconismo, e che nella stagione del metaverso viale Mazzini custodisca in qualche stanza la formula magica dell’egemonia.
Mentre invece la pluralità vertiginosa delle conoscenze e la libertà degli accessi informativi stanno già smontando ogni intermediazione di potere, sostituendo alla dittatura conformista del senso comune l’autonomia e l’indipendenza di un soggetto sociale che in Italia paga un ritardo storico, dunque colpevole: la pubblica opinione.