“Perché i Sartre nascono solo da una parte?”, si chiedeva sconsolato il colonnello Mathieu, capo dei paracadutisti francesi inviati a sedare la rivolta in Algeria alla fine degli anni Cinquanta, nel capolavoro di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri. Una domanda che riassumeva in maniera nitida e concisa un’intera letteratura politica sull’egemonia della sinistra nel dopoguerra. Egemonia culturale e sociale, di consenso politico e di senso comune – spiega Ezio Mauro su “la Repubblica” del 22 maggio, in un articolo nel quale esprime preoccupazione per un rischio di emarginazione completa di ogni voce problematica di sinistra, o anche solo democratica, in uno scenario che vede la destra cercare di sostituirsi, con la sua forza di sfondamento elettorale, al destino che vedeva i Sartre, cioè gli intellettuali di riferimento, nascere solo nel campo dei suoi antagonisti.
La distinzione fra consenso e senso comune che fa Mauro – il primo è un’espressione politica, spiega l’ex direttore del quotidiano romano, il secondo un’espressione sociale – mostra subito la faglia che separa il passato dal presente. Oggi, con le modalità e le relazioni di connessione diretta, punto a punto, i due concetti si identificano l’uno nell’altro, mutando sia la profondità sia la durata. Viviamo in uno stato d’animo in cui – lo riconosce lo stesso Mauro – il motore è una sorta di rancore diffuso, per cui “l’immaginario è stato mangiato dalla fatica del quotidiano”. Una fatica, si può aggiungere, in cui il vero tratto innovativo è l’ambizione, anche del più frustrato dei membri di questa comunità umana, di compararsi alle élite a cui si nega ogni legittimità distintiva. Per questo la politica si nutre – scrive ancora l’autore – “non sulla base di una visione ma di una delusione” per l’avversario. Chi governa o si distacca dalle élite, e si qualifica come underdog alla Meloni, o viene schiacciato dall’identificazione con i potenti.
Non è più l’emancipazione delle masse a illuminare “il sol dell’avvenire” (per richiamare la metafora del recente film di Nanni Moretti), quanto la singola e mutevole pretesa di raggiungere una forma di successo, di distinzione, di differenza, rispetto a tutti gli altri: io sono io, persino se sto male. In questo senso possiamo dire che la destra ha conquistato da tempo l’egemonia, sia politica sia sociale, almeno dalla metà degli anni Ottanta, quando iniziò quel fenomeno descritto caricaturalmente come “edonismo di massa”, che altro non era se non la pretesa dei poveri di vivere come i ricchi – ma individualmente.
Bauman ci regalò il concetto di “società liquida”, non prima di averci avvertito che stavamo transitando da una triade sociale segnata da “lavoro di massa-consumi di massa-mass media”, a un’altra in cui era centrale la relazione fra “lavori individuali-consumi personalizzati-media on demand”. Qui si scinde l’atomo del progresso come inevitabile sostituzione della grettezza del presente con un futuro radioso. E il “capitalismo della sorveglianza”, per dirla con Shoshana Zuboff, prende in mano il mondo, parlando con ognuno dei suoi miliardi di abitanti, grazie alla potenza di calcolo che rielabora e identifica i profili di ogni in virtù dell’inesorabile flusso di dati.
La sostituzione del lavoro manifatturiero con uno scambio permanente di simboli e dati è la matrice che rovescia la società del welfare di massa in una moltitudine di arrivisti e speculatori, persino nella miseria. La destra è la conseguenza di questa marmellata populista, che non riformula le relazioni sociali ma le subisce, perché non pratica forme di conflitto ma solo regimi pattizi momentanei. Questo tessuto malmostoso, tuttavia, non produce valori comuni, solo schegge che si bruciano nel momento in cui appaiono: non lucciole, fuochi artificiali. La creatività si realizza e trasforma in un altro ambiente: nella rete, dove le relazioni virtuali creano “metaversi” sociopolitici momentanei. In questo ambiente decide la potenza di calcolo privata, che in questi anni ha dominato sullo spazio pubblico.
Qualcosa potrebbe mutare con un incidente istantaneo. La multa di un miliardo e duecento milioni di euro comminata a Meta, il gruppo proprietario di Facebook, dall’Irlanda, sulla base della normativa europea, potrebbe cambiare lo scenario. Non solo e non tanto perché si tratta della sanzione pecuniaria più ingente della storia comunitaria, quanto perché è destinata a mutare il meccanismo stesso delle relazioni fra i singoli Stati e le grandi piattaforme della Silicon Valley e, più in generale, fra Europa e Stati Uniti.
La decisione comminata dall’authority irlandese, ritenuta peraltro la più morbida e accondiscendente con i grandi marchi della Silicon Valley, punisce una funzione essenziale di questi gruppi digitali: il trasferimento metodico di ogni dato raccolto su ogni utente europeo negli Stati Uniti. Diciamo banalmente: per la prima volta si sta applicando meticolosamente il Dgpr, il regolamento europeo che da quattro anni dovrebbe disciplinare il mercato digitale. La sanzione colpisce il cuore del sistema, quella pulviscolare profilazione che permette a ogni service provider di radiografare personalità e comportamenti degli utenti, trasformando poi i dati in istruzioni per gli inserzionisti.
In base a questa dinamica, l’ingente multa va a sanzionare l’illecito guadagno che in questi anni ha permesso a Facebook di diventare una potenza finanziaria planetaria. Ovviamente Meta ha già fatto sapere di fare opposizione, e di prepararsi a un lungo e arzigogolato contenzioso, che probabilmente è destinato a prolungarsi per alcuni anni. Ma nel frattempo il clima è già cambiato per gli invincibili samurai del calcolo. La multa europea arriva dopo una lunga serie di contrasti, che ha visto le istituzioni riprendere campo rispetto al dominio delle proprietà dei gruppi digitali. La svolta ha un nome e una data precisi: Cambridge Analytica, 2018. In quell’anno si apre l’inchiesta che illumina il più grande caso di inquinamento elettorale della storia. Le elezioni presidenziali del 2016, sorprendentemente vinte da Donald Trump, vengono pilotate da un sofisticato sistema di profilazione di alcuni milioni di elettori, dislocati nei sei Stati contendibili dello scacchiere statunitense, che permette a un altrettanto sofisticato quanto poderoso apparato di comunicazione personalizzata di arrivare direttamente sugli schermi di questi elettori, parlando a ognuno con i linguaggi e gli argomenti più intimi di questi cittadini americani. Un sistema allestito proprio sulla base dei dati raccolti e venduti da Facebook. Da quel momento, si è aperta una fase di risentimento e arroccamento delle istituzioni, che si sono accorte di essere bersaglio e ostaggio di queste tecniche di intromissione individuale.
Per venire solo agli ultimi mesi, abbiamo visto in Italia il garante della privacy mettere sotto scacco ChatGPT, il dispositivo di intelligenza artificiale, imponendole di adeguarsi proprio alle norme del Dgpr, cosa che i proprietari del sistema – la società OpenAI, posseduta da Micrsoft – ha prontamente fatto. E l’altro giorno, negli Usa, lo Stato del Montana ha deciso di interdire ai suoi cittadini l’uso di TikTok per fondati sospetti di complicità da parte della piattaforma, di proprietà di un gruppo cinese, con le autorità di Pechino nella profilazione degli utenti americani.
Oggi arriva la sentenza europea che blocca il disinvolto uso delle informazioni sugli utenti di Facebook. Il vento sta cambiando visibilmente. Ma dietro queste decisioni, soprattutto l’ultima, non si fa fatica a cogliere anche un’incrinatura dei rapporti delle autorità comunitarie con i loro colleghi americani. Infatti, il comportamento di riversare, con una frequenza di circa una volta ogni ora, tutti i dati accumulati in Europa nei server americani risponde non tanto a una logica industriale o di sicurezza aziendale, quanto a un accordo di collaborazione con il Dipartimento di Stato, che risale proprio al debutto sul mercato del social di Mark Zuckerberg. Come documenta il fortunatissimo saggio di Shoshana Zuboff, Facebook, al suo nascere, ebbe un sostanzioso e decisivo aiuto da parte delle autorità statunitensi che integrarono le informazioni che venivano raccolte dal nuovo social con i propri archivi. Lo stesso si è detto di Google. Diciamo che tutta la mitologia dei ragazzi di talento, che in un garage inventano il nuovo mondo digitale, va rivista alla luce di manine comprensive e interessate, che da Washington hanno incoraggiato e vincolato i nuovi sistemi social.
Dopo vent’anni esatti, nonostante il ruolo che molti di questi talentuosi manager oggi stanno giocando nella guerra in Ucraina accanto alle forze di Kiev, l’Europa sembra voler porre fine a un dominio che ha visto gli americani spadroneggiare sul mercato dei dati, e sconvolgere, di conseguenza, l’intero assetto del mondo dell’informazione e della cybersecurity. Ora potrebbe appunto aprirsi un’altra storia. Potrebbe.
Torna al centro della scena lo Stato, ma ancora di più la comunità, che individua un altro bersaglio: la potenza privata che sequestra le opportunità delle nuove tecnologie. Si anima quel deserto sociopolitico che è la società digitale, e si innestano conflitti che potrebbero ridare forma a organizzazioni degli interessi e delle volontà: qualcosa che assomiglia a un antico partito e riproduce un antico linguaggio, quello della cultura come forma di una identità uniforme di ceti e di gruppi. Potrebbero.