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Occorre superare la lettura che ne faceva un irrazionalista anticartesiano, finendo per svalutarne la rilevanza filosofica
ROBERTO TIMOSSI
Nelle storie della filosofia scritte in lingua italiana la figura Blaise Pascal tende a essere descritta come quella di un uomo di scienza o di un matematico che era contemporaneamente un fideista, svalutandone quindi spesso l’importanza filosofica nella direzione di un irrazionalismo anticartesiano. Per portare soltanto qualche illustre esempio, la Storia della filosofia di ispirazione idealistica di Guido De Ruggiero ci presenta il pensatore francese come uno scrittore “frammentario”, in cui si coglie hegelianamente un movimento dialettico irrisolto tra esprit de géométrie ed esprit de finesse; movimento culminante in uno spiritualismo mistico alla Henri Bergson. Con ancora maggior vigore propende per un Pascal espressione più di afflato mistico che di ragionamento filosofico la sintesi storica di Eustachio Paolo Lamanna, che per molto tempo è stata uno dei manuali maggiormente adottati nell’insegnamento della filosofia. Storie della filosofia adattate alla manualistica sono risultate anche quella dell’esistenzialista Nicola Abbagnano, nella quale si sottolinea l’antagonismo tra la ragione ( esprit de géométrie) e il cuore ( esprit de finesse) per concludere con la validità della sola via della fede come dono esclusivo di Dio; nonché quella del marxista Ludovico Geymonat, che interpretava il pensiero pascaliano addirittura come un riprovevole
debordare dall’impostazione scientifica all’irrazionalismo sul tipo della celebre scommessa pro o contro Dio. L’idea di un Pascal fideista che rifiuta le prove metafisiche dell’esistenza di Dio perché non ci mostrano il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, che invece si conosce soltanto in virtù del dono della grazia, continua a essere riproposta anche ai giorni nostri, come dimostra un recente articolo di Dario Antiseri apparso sulla rivista “Vita e Pensiero” (n. 1/2023).
Questa rappresentazione di un Pascal sfavorevole o indifferente alle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio è tuttavia eccessiva e troppo sbilanciata sul versante delle influenze gianseniste provenienti da Port-Royal. Inoltre nel “caso italiano” essa dipende da una limitata conoscenza dell’opera completa del filosofo francese, che da noi è reperibile da soltanto due anni in due buone traduzioni (edizione Scholé/Morcelliana a cura di Domenico Bosco ed edizione Bompiani a cura di Maria Vita Romeo), e dalla scarsa familiarità con l’edizione critica dei Pensées. In definitiva, premesso che nel pensiero pascaliano la teologia naturale può avere una funzione esclusivamente nei confronti del Dio dei filosofi e non del Dio della fede, la via interpretativa a nostro giudizio più corretta è quella che attribuisce a Pascal non un rifiuto fideistico delle argomentazioni razionali a sostegno dell’esistenza di un Essere onnipotente creatore e ordinatore del mondo, bensì la convinzione di una loro inefficacia nel convertire gli scettici pirroniani della sua epoca, che come gli agnostici sospendevano il giudizio su Dio.
Del resto qua e là nelle sue opere il pensatore francese non si disdegna di accennare con rispetto ad almeno una prova filosofica
classica: quella agostiniana delle idee o verità eterne presenti al nostro intelletto e di cui l’artefice può essere soltanto un Ente perfettissimo. Ma per Pascal, come poi per Immanuel Kant, vi è pure una motivazione etica che impedisce di conseguire la certezza assoluta dell’esistenza di Dio. Se infatti il Creatore si rivelasse a ciascuno di noi come farà con l’avvento del Regno dei Cieli, anche i ciechi e i folli finirebbero per accoglierlo senza riserve.
Tuttavia in tal modo anche colui che non fosse propenso per libera scelta ad accettarlo o non meritasse la grazia divina finirebbe col convertirsi; pertanto non vi sarebbe alcun autentico valore e alcuna vera libertà nel credere in Dio. Alla stessa maniera, se il Creatore non si manifestasse minimamente, se rimanesse totalmente celato alla nostra ragione, sarebbe oggettivamente impossibile credere in Lui. Per questo secondo Pascal il Dio biblico è un Deus absconditus, che in parte si coglie con la ragione e per il resto richiede il concorso della grazia della fede. Del resto come interpretare diversamente da un rivelarsi che è al tempo stesso un celarsi il mistero di Gesù Cristo, cioè di un Essere divino che si fa uomo e per il nostro riscatto sopporta lo strazio della croce?