L’accordo per il Patto sull’immigrazione e l’asilo, raggiunto dai ministri dell’Interno dei Paesi dell’Unione, l’8 giugno a Lussemburgo, su cui sono ora in corso i negoziati con il parlamento europeo, rappresenta una svolta storica. Per la prima volta, negli ultimi sette anni, la questione migratoria è stata riportata sul piano che le compete secondo il Trattato dell’Unione europea di Lisbona: quello delle politiche comuni, basate su decisioni legislative prese a livello ministeriale in Consiglio Ue, a maggioranza qualificata quando è necessario (in questo l’accordo è stato approvato con il voto contrario di Polonia e Ungheria).
Non era più successo, dall’epoca della crisi migratoria del 2015-2016, causata soprattutto dalla guerra in Siria. Nel 2015, la Commissione Juncker propose a due riprese, a maggio e a settembre, il ricollocamento (relocation) di 160.000 migranti in totale, arrivati in Italia, in Grecia o in Ungheria. Ma l’Ungheria, contraria per principio a questa misura, non accettò; e le sue quote di migranti, da redistribuire negli altri Paesi dell’Unione, furono riassegnate a Italia e Grecia. L’adozione di questi provvedimenti di urgenza in Consiglio Ue, con l’opposizione di Varsavia e Budapest, fu l’ultima decisione di politica migratoria presa a maggioranza qualificata.
Negli anni successivi, il tema migratorio è stato costantemente rimandato alle discussioni dei capi di Stato e di governo in Consiglio europeo, dove le decisioni (che comunque non hanno di per sé valore legislativo) possono essere prese solo all’unanimità. Oltretutto, i ricollocamenti obbligatori di emergenza, del 2015-2016, andarono a rilento, e furono attuati solo parzialmente (dovevano essere completati entro il 2017). Così come fallimentari furono i tentativi successivi, iniziati con gli accordi di Malta del 23 settembre 2019, all’inizio del governo Conte 2, e ripetuti dalla presidenza francese del Consiglio Ue nel 2022, di procedere ai ricollocamenti attraverso accordi volontari con i Paesi disponibili, lasciando fuori quelli contrari.
Un altro insuccesso clamoroso della politica comunitaria dell’immigrazione e dell’asilo fu il primo tentativo, sempre su proposta della Commissione Juncker, di riformare il Regolamento di Dublino, che sancisce l’ingiusto principio della responsabilità esclusiva dei Paesi di primo ingresso nella gestione dei migranti irregolari. Nonostante il parlamento europeo avesse approvato a larga maggioranza il testo della riforma – inserendo anche delle modifiche molto favorevoli ai Paesi di primo ingresso, con un meccanismo di ricollocamenti obbligatori e automatici – i governi bloccarono la legislazione, non prendendo mai neanche in considerazione la proposta.
Invece, l’accordo dell’8 giugno costituisce la posizione negoziale con cui il Consiglio Ue ha accettato di confrontarsi con il parlamento europeo, che ha già votato i propri emendamenti, sul testo del Patto sull’immigrazione e l’asilo, che la Commissione europea aveva presentato nell’ormai lontano 23 settembre 2020. Oltre che una svolta, per tutte queste ragioni, l’accordo di Lussemburgo è stato anche una sorpresa: perché ha spostato davvero, concretamente, il focus delle misure proposte, dalla questione della redistribuzione interna alla “dimensione esterna” dei flussi migratori (come chiedeva il governo italiano di Giorgia Meloni, e come, a parole, tutti gli altri governi dicevano di volere).
I ricollocamenti sono parte dell’accordo, ma la chiave di volta su cui si regge il compromesso è la novità assoluta costituita dalla possibilità di “rimpatriare” i migranti economici, quelli a cui è stato rifiutato l’asilo, in alcuni Paesi di transito (quelli “sicuri”, come la Tunisia o il Marocco) invece che nei Paesi di origine. Con un nuovo piano, e nuovi fondi, per aiutare questi Paesi di transito a trattenere i migranti e a gestirli sul proprio territorio in modo accettabile, rispettandone i diritti fondamentali.
È soprattutto su questo punto che si è negoziato a Lussemburgo. La Germania chiedeva che il rinvio nei Paesi di transito fosse condizionato all’esistenza di una “connessione” solida del migrante con quel Paese (come legami familiari o una residenza legale in passato). L’Italia e molti altri Stati membri insistevano, invece, sulla sola condizione del “Paese sicuro”. Alla fine, è passato il principio per cui sono gli Stati membri a decidere in base a quale connessione i migranti, a cui è stato negato l’asilo, potranno essere rinviati nel Paese di transito, in cui sono stati prima di arrivare nell’Unione.
Questo apre la strada a una soluzione molto simile a quella già vista con la Turchia. L’Italia, in pratica, potrà ripetere con la Tunisia – e la Spagna con il Marocco – l’esperienza che la Germania ha realizzato in questi anni con la Turchia. Da quando, nel 2016, la cancelliera Angela Merkel mise l’Europa davanti al fatto compiuto del suo accordo con Erdogan: Ankara accettava di trattenere nei suoi campi di accoglienza i migranti, soprattutto profughi siriani, che passavano dal suo territorio per intraprendere la rotta balcanica verso il centro e Nord Europa, in particolare verso la Germania, e l’Unione si impegnava a pagare alla Turchia tre miliardi di euro (poi rinnovati altre due volte) per la gestione e il mantenimento di questa massa di diseredati (comprese le scuole per i bambini).
Gli altri due elementi chiave dell’accordo sono la cosiddetta “solidarietà obbligatoria”, da una parte, e l’instaurazione, dall’altra, di una nuova procedura accelerata e molto più rigorosa per processare le domande di asilo, in prossimità delle frontiere esterne dell’Unione, nei Paesi di primo ingresso. I due elementi tengono insieme, e bilanciano in un complicato compromesso, le esigenze dei Paesi mediterranei in prima linea sulle rotte migratorie, e quelle degli Stati membri del centro e Nord Europa. Questi ultimi vorrebbero soprattutto mettere fine ai “movimenti secondari” dei migranti che, non essendo stati registrati in modo appropriato dai Paesi di primo ingresso, attraversano le frontiere interne e vanno a chiedere asilo in Germania, in Francia, Belgio, Olanda o Svezia. Solidarietà obbligatoria significa che gli Stati membri avranno la scelta fra due opzioni: accogliere determinate quote di richiedenti asilo, provenienti dai Paesi di primo ingresso, che sono loro assegnate in base a criteri oggettivi (Pil, popolazione, numero di migranti già sul territorio); oppure fornire una compensazione finanziaria, pagando ventimila euro per ogni migrante loro assegnato dalle quote, che rifiutano di ricollocare sul proprio territorio. Il numero di ricollocamenti riguarderà trentamila migranti all’anno in tutta l’Unione.
Le procedure accelerate alle frontiere, per l’esame delle richieste di asilo, dovranno essere completate entro dodici settimane (tre mesi), un tempo incomparabilmente più breve di quello solito (fino a diversi anni), mentre i migranti saranno rigorosamente registrati e trattenuti in centri di accoglienza (in realtà centri di detenzione) in prossimità delle frontiere. Le persone a cui sarà stato rifiutato l’asilo potranno restare ancora altri tre mesi nei centri, in attesa di essere rimpatriate (o rinviate nei Paesi di transito “sicuri”).
Questo sistema accelerato, che dovrebbe minimizzare i movimenti secondari, riguarderà comunque solo una parte dei migranti approdati nei Paesi di primo ingresso: i migranti cittadini di Paesi con un alto indice di accoglimento delle richieste di asilo (soprattutto perché vi sono conflitti in corso) potranno continuare a passare per le procedure ordinarie. Inoltre, la procedura accelerata si applicherà fino a una soglia massima di trentamila arrivi, da rinnovare periodicamente (all’inizio due volte all’anno, poi per periodi più brevi), in tutta l’Unione. Oltre la soglia, continueranno a essere applicate le procedure attuali.
Gli ultimi due elementi importanti dell’accordo sono la decisione di destinare a un nuovo fondo Ue dedicato alla “dimensione esterna” i ventimila euro per migrante dei Paesi che rifiutano i ricollocamenti loro assegnati, e una clausola di revisione del nuovo sistema che permetterà di verificarne il funzionamento un anno dopo la sua applicazione sul terreno, ed eventualmente di proporre delle modifiche, se si riveleranno necessarie.
Il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi, che ha svolto un ruolo non secondario nel negoziato di Lussemburgo, ha particolarmente insistito sul fatto che i ventimila euro per migrante versati dagli Stati membri contrari ai ricollocamenti non dovranno andare ai Paesi di primo ingresso, perché significherebbe pagarli per tenersi i migranti in casa. Una soluzione che – ha detto il ministro – non sarebbe accettabile per la dignità dell’Italia. Ma, sostanzialmente, l’accordo consiste proprio nel pagare altri Paesi, fuori dall’Unione, perché si tengano o si riprendano i migranti che passano dal loro territorio per cercare di arrivare in Europa.
La revisione, un anno dopo l’attuazione, sarà importante, soprattutto per verificare se effettivamente arriveranno i fondi Ue ai Paesi di transito (non solo per la gestione dei migranti, ma anche per gli investimenti nello sviluppo delle loro economie, delle infrastrutture, delle energie rinnovabili), e se saranno rispettati i diritti, la dignità e le esigenze dei migranti trattenuti nei campi di accoglienza, con il controllo delle Ong e delle organizzazioni internazionali come l’Oim.
Infine, un caveat è d’obbligo riguardo al risultato finale del negoziato in corso tra le istituzioni europee: è possibile che il testo finale modifichi i termini dell’accordo del Consiglio Ue, che è molto diverso dal testo approvato dal parlamento europeo. Ma l’equilibrio del compromesso è molto complesso e difficile da mantenere, se si introducono cambiamenti sostanziali. Si può prevedere dunque che, alla fine, prevarrà l’esigenza di procedere comunque alla riforma dell’attuale sistema, che non funziona, non è applicato in modo rigoroso, è ingiusto verso i Paesi di primo ingresso, e sembra fatto apposta per il business model dei trafficanti.