I processi economici di riorganizzazione del capitalismo, nell’ultimo ventennio, hanno frammentato il corpo sociale del lavoro, trasformato il ciclo produttivo industriale, esteso al territorio la catena del valore e delocalizzato nel mondo subalterno l’industrializzazione dei beni materiali, sviluppando, nel contempo, un’egemonia sullo sfruttamento delle risorse: dall’acqua agli idrocarburi, dalle terre rare alle coltivazioni intensive. Il capitalismo ha steso una rete di dominio finanziario e di know-how, costruendo oligopoli strutturati in modo globale, che fissano i prezzi, i salari, influenzano e determinano scelte di vita di donne e uomini.
L’offensiva del capitale contro il patto sociale del welfare della seconda metà del Novecento ha trovato nella crisi pandemica un ambiente in cui accentuare la propria spinta e aumentare le diseguaglianze sociali, aprendo processi di rivoluzione passiva, interloquendo direttamente con i soggetti sociali della produzione, con le istituzioni locali e governative, relegando i corpi intermedi – sindacati, partiti, istituzioni locali – a un ruolo subalterno di accettazione dello sviluppo capitalistico. In questo contesto, le aree metropolitane – meglio, tutto il territorio – sono il nuovo livello di accumulazione del capitale, il luogo in cui affermare egemonia gerarchizzando gruppi sociali, gestendo i flussi di dati che l’implementazione tecnologica ha reso un “rivolo d’oro” del dominio ideologico e culturale.
Aldo Bonomi, in Oltre le mura dell’impresa (edito da DeriveApprodi), illustra analiticamente i processi dal postindustriale al neoindustriale, con la riorganizzazione delle filiere territorializzate di produzione di beni che si espandono sul territorio, creando filiere del valore che incorporano la stessa riproduzione sociale e umana; le economie urbane passano dalla gestione separata della fabbrica e del territorio a una integrazione di filiere di servizi, riutilizzo di terreni, gestione dei flussi cognitivi “presi” e gestiti dallo sviluppo tecnologico: un patrimonio conoscitivo riservato alle grandi imprese oligopolistiche informatiche che determinano l’“industria urbana”. Questo modello è il terreno di scontro attuale su cui costruire socialmente proposte politiche a sinistra, che sappiano assumere la portata epocale di questa fase.
Esemplare è la città di Napoli con la sua area metropolitana, seppure atipica nella sua evoluzione rispetto alle aree metropolitane del Nord del Paese, a causa del modello di sviluppo neodualistico: in questi decenni è stata investita da un processo di “formazione di brand”, e relegata a capitale meridionale minore secondo un processo di sviluppo che sta costruendo un’immagine di città da vendere sul mercato turistico. Una città che si rigenera nell’immaginario, che attrae con il “bello” fruibile a buon mercato.
Si sviluppa una politica di trasformazione del tessuto urbano, che mette a rendita crescente le residenze storiche, sia nei vicoli sia nelle zone residenziali, così come le aree dismesse dal settore pubblico: ferrovie di Stato, o edifici di demanio militare, sono oggetto di contrattazione con il settore privato, che esercita un diritto di prelazione. Si gestiscono così processi settoriali di gentrificazione, che relegano le periferie a luogo secondario e nascosto, in cui operano forze malavitose e di economia sommersa che, della commistione tra lavoro nero e speculazione organica, si avvalgono come leva dell’estrazione della ricchezza.
Il ciclo di “produzione di ricchezza” ha esportato sul territorio dell’area metropolitana la catena produttiva, frazionando le competenze, riducendo con l’automazione il numero dei lavoratori, segmentando strati sociali in corpi autoreferenziali in competizione tra loro, avviando sul territorio una conquista speculativa derivata dalla privatizzazione dei servizi, dalla valorizzazione redditiera degli immobili, dall’orientamento monopolistico dell’immaginario bene di consumo di massa. Il territorio è diventato oggetto da cui ricavare ricchezza mediante la gestione dei flussi di informazioni, “regalati” dagli utenti delle piattaforme informatiche ai gestori che indirizzano il mercato secondo la logica del massimo profitto e dell’alienazione del cittadino dalla gestione di se stesso.
Cambia, in questo contesto, il ruolo delle amministrazioni pubbliche: da attori della regolamentazione dello sviluppo del territorio passano a una funzione neutra, in qualche caso di parte, nella trasformazione neoliberista, assumendo come interlocutore il sistema delle imprese che espandono sul territorio il ciclo della valorizzazione del capitale, travolgendo le condizioni di vita associata e qualsiasi salvaguardia delle fasce deboli, neutralizzando gli antagonismi promossi dalle associazioni resilienti, e diventando la nota istituzionale predominante dello sviluppo, abdicando quindi al proprio ruolo di regolatori della coesione sociale.
Una città il cui governo si affida alla spontaneità degli eventi senza intervenire nella gestione strutturale di un riequilibrio urbano controllando il patrimonio pubblico, sviluppando progetti di intervento che facciano della città stessa un luogo inclusivo, funzionale all’integrazione delle periferie nel tessuto urbano. Un governo della città che non assume in proprio la conduzione del patrimonio culturale dei suoi musei e dei suoi valori urbanistici, resistendo alle chimere delle multinazionali della cultura omologante, che hanno destinato a Napoli e alla sua area metropolitana un futuro di spettacolo “atipico”, in sintonia con la politica che governa il nostro Paese. È così che si è riprodotto il modello dualistico di sviluppo, che continua ad alimentare le diseguaglianze tra Nord e Sud, aprendo fratture sociali e istituzionali tese all’ulteriore frazionamento dei ceti sociali, per affermare infine il bisogno di una governabilità forte, da compiersi con una revisione costituzionale – marchio vendibile anch’esso.
Questi processi, insieme con il monopolio dello sviluppo tecnologico, forniscono i temi dell’ideologia della modernità neoliberista come orizzonte unico possibile verso cui indirizzare l’umanità. La “fabbrica città” diventa il luogo di confronto della sinistra oggi elettoralmente concentrata nei “centri storici”, legata a una concezione dello scontro sociale come spinta per i diritti civili settoriali, nell’ambito di modifiche delle istituzioni determinate dalla congiuntura corrente.
La gestione delle Regioni e degli enti locali, svolta per lunghi decenni dalla sinistra, registra oggi uno stallo che la sta portando a essere marginale non solo nel campo delle rivendicazioni dei diritti universali, ma soprattutto nel corpo sociale del Paese. Nelle aree metropolitane i processi di gentrificazione, l’inerzia delle amministrazioni, l’iniziativa del capitale che, attraverso la finanza, scompone i ceti sociali, generano l’aumento delle diseguaglianze.
Si aggrava così, in termini sia materiali sia culturali, la condizione delle aree interne, delle periferie urbane sempre più marginalizzate, usate come luoghi di clientela, di associazioni delinquenziali, come mercato speculativo dei beni essenziali. Le aree rilevanti per il turismo sono invece monopolizzate da uno sviluppo centrato sul mercato del tempo libero, senza ricadute strutturali: e la Campania vede così moltiplicarsi i centri urbani alla ricerca di una propria identità autoreferenziale.
Anche il quadro amministrativo regionale ne è condizionato: nessuna pianificazione territoriale, seppure licenziata dal Consiglio regionale, è mai stata applicata; i piani di zona sono fermi, chiusi in un dibattito risalente alla fine del secolo scorso, in cui l’idea predominante era la regola “civile” da studiare e applicare come metodo di disciplina organica del territorio.
Non si coglie il cambio di passo dello sviluppo, né la portata della ristrutturazione costituzionale del Paese; sul sovranismo regionalista non si sente, nelle posizioni dei partiti di sinistra, una netta opposizione che proponga una soluzione strutturale al divario economico e sociale del Paese: la trattativa per “condizionare”, con senso di responsabilità, appare la linea del centrosinistra, sia pure non declinata unitariamente. Discutere di aree metropolitane, di territori, di governo e di contrasto ai flussi finanziari, di flussi informatici, vero sapere e ricchezza immateriale dei tempi nostri, significherebbe invece affrontare i nodi dello sviluppo.
Sui temi, esposti qui sommariamente, si potrebbe avviare una politica sociale di unificazione delle molteplici figure dell’attuale mondo del lavoro; si potrebbe sviluppare una proposta di politica economica che unifichi il Paese, che apra una solida prospettiva di superamento di questo globalismo generatore di diseguaglianze. Occorre avere una capacità di analisi, che parta da un concetto di fondo: tutti i processi produttivi e di riorganizzazione sociale messi in campo dal capitalismo hanno un valore aggiunto al loro servizio: la tecnologia informatica. Lo sviluppo informatico – dal personal computer al tablet, a Internet, all’intelligenza artificiale – iniziato, tra Stati Uniti, Europa e Giappone, dalla metà del secolo scorso, è stato un terreno di appropriazione privatistica delle fonti scientifiche e delle modalità d’uso che condizionano, oggi, l’intero arco di vita dell’umanità.
Altri, meglio di me, ragionano su questo tema; mi limito ad alcune considerazioni del rapporto tra la sinistra e lo sviluppo tecnologico, sottolineandone la sottovalutazione della potenza del mezzo stesso in prima battuta e la subordinazione, nell’utilizzo, alla logica di uso fornita dai monopolisti dell’algoritmo: non si ha contezza di piani regolatori dei flussi informatici proposti da amministrazioni pubbliche, né di aperture di vertenze sulla salvaguardia della riservatezza sull’utilizzo dei dati personali degli utenti, né tanto meno sulla fiscalità evasa.
Oggi, su un autorevole giornale napoletano, si legge della proposta, da parte di una “boutique finanziaria” milanese di capital markets, di “portare in borsa” il Mezzogiorno, ancora una volta brand da imbastire come veicolo di estrazione di ricchezza. Sono iniziative finanziarie rivolte a facilitare le piattaforme di distribuzione di beni di consumo: proposte a tempo, del resto, perché con una prossima bolla finanziaria tutto verrà travolto. La storia del capitalismo è storia di crisi cicliche che hanno trasformato condizioni di vita, di produzione, cambiato sistemi culturali, avendo come obiettivo l’accumulo di plusvalore a danno dei “prestatori d’opera” e del lavoro. Ma ormai siamo in un ciclo in cui è in discussione la natura stessa dell’umanità; la fine della storia non c’è stata, è anzi andata avanti sulla strada del potere dei vincitori di condizionare le vite di uomini e donne. La sinistra deve allora cambiare pelle e orientamento culturale: deve uscire dal patto con “Tina” (acronimo di there is no alternative di thacheriana memoria), che significa poi: tu guidi sulla strada dell’accumulazione di ricchezza, mentre io cerco di sviluppare un sistema di diritti, non legati al modo di produrre e di accumulare le diseguaglianze, ma che rendano sopportabile agli esclusi questo sistema.