ALESSANDRIA SMITH
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31 Maggio 2022Lo scrittore che ha raccontato gli orrori commessi dal fascismo contro la minoranza slovena è morto a 108 anni nella sua Trieste I suoi libri, a partire da “Necropoli”, sono stati tradotti nel mondo
Il vecchio aveva uno sguardo celeste. Una sera che l’ultimo sole entrò fino in fondo alla sua casa, alta sul mare di Trieste, mi diede un’occhiata che parve di adolescente. Poco prima mi aveva aperto il cancello del giardino dopo aver salito dei gradini con passo elastico. Aveva da poco compiuto cent’anni e io non capivo dove stesse il segreto della sua vitalità. Forse nella memoria. Boris Pahor, sloveno d’Italia, classe 1913, ne era il monumento. La teneva viva come un dovere ostinato, che continuava a sobbarcarsi nonostante gli anni. C’era un “demone” di frontiera che gli impediva di mollare, un anima da bastian contrario che lo incollava alla vita. Qualcosa di ribelle che faceva parte del suo vento, del mare e della pietra cui era aggrappata la sua casa.
Cento e otto anni. Forse la sua longevità era una vendetta contro il fascismo che gli aveva rubato venticinque anni di vita, impedendogli di parlare la sua lingua. Era il recupero del tempo perduto, la risposta all’ostracismo di chi, nel dopoguerra, non aveva voluto si sapesse che nella città “italianissima” c’era un uomo capace di scrivere in un’altra lingua, tanto più se si ostinava a sbugiardare le amnesie di una terra dove il fascismo aveva dato il peggio di sé. Era il conto da regolare con una fama beffarda, che l’aveva fatto conoscere ovunque nel mondo, ma non nel Paese in cui era nato. Una diga rotta appena a 95 anni, quando il suo capolavoro, Necropoli , sul suo internamento in un lager nazista, era stato “scongelato” dopo 40 anni, e tradotto in Italia.
Ardeva di vita. Cinque anni fa lo accompagnai a ritirare dei soldi nella sua banca sul Carso. Gli tagliò la strada una bella bruna, e lui reagì come un ragazzo. Mi si aggrappò al braccio e disse: «Ah, se avessi solo dieci anni di meno…». Pochi mesi fa gli chiesero un’intervista-video di tre minuti da inoltrare in Germania come ringraziamento per un premio europeo di cui ero compartecipe. Ebbene lui, quasi cieco, seduto in poltrona, parlò per tre minuti esatti senza ripetizioni né sbavature. Alla fine confessò di avere ancora un progetto. Era L’Homme revolté , disse in francese, citando il suo modello, Camus, e il memorabile pamphlet Indignez-vous , scritto da un altro grande vecchio, Stéphane Hessel. Per lui il francese era la lingua della liberazione: dopo il lager era stato spedito a riabilitarsi in terra transalpina, dove una dolce infermiera lo aveva riaccompagnato fra i vivi. «Mi basterebbero due anni per scriverlo», confessò. Difficile distinguere lo scrittore dal mistero della sua longevità.
Ricordava spesso “il fuoco”, quello appiccato nel 1920 dalle camicie nere alla Casa di cultura slovena di Trieste, in un clima fertile di reciproche provocazioni in tutto l’Adriatico orientale. Quelle fiamme viste da bambino erano per lui l’inizio del Male, il collaudo di un’oppressione razziale iniziata in Italia prima che in Germania, che avrebbe portato ai forni di Birkenau. E Trieste era il luogo amato e maledetto, dove si era costruito l’annichilimento degli slavi (“allogeni” che vennero italianizzati anagraficamente a decine di migliaia) e dove Mussolini aveva proclamato le leggi anti- ebraiche in un tripudio di folla osannante.
Su tutto questo scendeva già l’ombra del negazionismo. Si parlava sempre meno dei fascisti e della guerra che avevano provocato, per meglio concentrare la memoria sulle foibe, sulle vendette “slavocomuniste” ai danni di chi aveva perso la guerra. Un meccanismo che usava le vittime troppo spesso innocenti di quelle ritorsioni solo per oscurare il “male” che le aveva precedute e generate. Un modo per usare il “Giorno del ricordo” – caso unico in Europa – non per chiedere scusa, ma per pretendere scuse e mantenere vivo il rancore etnico. Così quando nel 2009 a questo Primo Levi di frontiera il Comune di Trieste offrì la cittadinanza onoraria evitando di nominare il fascismo nella biografia dello scrittore, ilvecchio fiutò l’imbroglio e respinse il dono avvelenato.
«Mi basta che le cose siano chiamate con il loro nome», diceva del cloroformio che ammorbava l’aria. Oggi l’arco completo della sua bibliografia testimonia di una lotta senza quartiere contro l’oblio. Libri come Il rogo nel porto, Il petalo giallo, Piazza Oberdan, Una primavera difficile, oppure Qui è proibito parlare. Tutti diffusi tempestivamente all’estero e invece tradotti in Italia con decenni di ritardo.
Diceva cose scomode. Per esempio che non c’era stato solo l’olocausto degli ebrei, ma la strage degli antinazisti tedeschi, passati anch’essi per il camino, come nel campo di concentramento di Dora in Turingia, dove gli oppositori irriducibili di Hitler erano stati mandati a costruire i missili V2 di Wernher von Braun per finire ghigliottinati a ogni esperimento fallito. Un orrore per il quale lo scienziato poi reclutato dagli americani, ricordava Pahor, non disse mai parole di pentimento.
E che dire dei cognomi cambiati d’ufficio a sessantamila triestini di lingua slovena, cognomi che per dovere di giustizia – chiedeva Pahor – dovevano essere riportati alla forma originale con analogo provvedimento d’ufficio. E i campi di concentramento fascisti, dimenticati, come quelli di Visco e Gonars, dove secondo i responsabili italiani «non si moriva abbastanza» e dove creparono di stenti sloveni e croati. Soprattutto vecchi, donne e bambini, già ridotti a scheletri. E ancora l’assenza di una Norimberga per i criminali di guerra italiani, e di conseguenza l’assenza di una celebrazione ufficiale dedicata non solo alle vittime di slavi o tedeschi, ma anche a quelle del fascismo.
Boris il combattente picchiò duro anche contro il regime di Tito. In un libro intervista del 1975 denunciò il massacro di dodicimila prigionieri di guerra sloveni che avevano militato nella milizia anti-comunista e poi i crimini delle foibe perpetrati a fine conflitto mondiale contro italiani, sloveni, croati e altri. Una provocazione che innescò durissime reazioni da parte del governo jugoslavo e determinarono il bando delle opere di Pahor nella repubblica slovena.
Un uomo-contro fino alla fine. Come quando gli capitò di esprimere timori per la sopravvivenza della madrelingua dopo che la cittadina costiera di Pirano, oggi Slovenia, aveva eletto sindaco un immigrato africano. Un’esternazione condannata da molti e vissuta con imbarazzo dalle autorità di Lubiana. Cercai di difenderlo, e non era facile. Anche perché, conoscendo la sua biografia, comprendevo il timore da lui espresso che il Globale finisse per annichilire una lingua parlata da appena due milioni di abitanti.
Per qualche anno ci fu su questo una densa corrispondenza tra noi. Boris, gli scrissi, come fai a fermare l’immigrazione se noncon i sistemi repressivi che tu per primo hai vissuto sulla tua pelle? Quale alternativa all’adozione dello straniero? E lui rispondeva, amareggiato ma duro, senza temere le contestazioni. «Io razzista?» brontolava. «Nessuno ha mai accusato la polis greca, che si difendeva dai persiani, di essere malata di razzismo per il solo fatto di voler difendere la propria cultura, lingua, tradizione». La trincea della lingua come ultima patria. Per un magnifico contrappasso della storia, proprio la lingua negata dall’oppressore era stata per lui fattore di salvezza nel lager alsaziano narrato in Necropoli. Era stata la conoscenza dello sloveno a consentirgli di capire polacchi, cechi, russi e ucraini, e sollevarsi al rango di infermiere. E poi il francese – Baudelaire, studiato all’università di Padova sotto la guida di Diego Valeri – e l’italiano, perfezionato con la laurea in lettere a Padova. E il tedesco, masticato da bambino, quando Trieste era ancora impero asburgico. Altre scialuppe di salvataggio.
«Dimmi – mi disse camminando su un prato sotto la rocca di Repentabor – ti sembra che io sia nazionalista solo perché voglio ricordare che è esistito il fascismo?». Lo chiedeva perché molti anche a Lubiana gli imputavano di ostinarsi a rimestare il passato. «Mi dicono: perché non lasciare che le nuove generazioni costruiscano il futuro a prescindere da quegli orrori? Io dico che ricordare è un dovere perché altrimenti il passato e l’orrore ritornano. Perché i costruttori del disordine sono pronti a occupare ogni varco di silenzio per manipolare la storia e costruire altri revanscismi su quelle manipolazioni».
Per dire queste cose divenne un nomade oltre i novant’anni. Lo invitavano a parlare da mezza Italia. Duecento inviti in tre anni. Ed è stata per lui la scoperta di un Paese diverso, di un pubblico assetato di sapere, di giovani attenti a non arrendersi a verità preconfezionate. Chi era, si chiedevano i ragazzi, quell’omino dal passo svelto e dall’occhio limpido che diceva cose terribili con la semplicità di un maestro elementare? Da dove gli veniva tanta ostinata forza di combattere? Perché c’era voluto un quasi centenario per sentir chiamare le cose col loro nome? Perché gli altri intellettuali stavano zitti?
Tra di noi parlavamo triestino perché era quella la parlata che avevamo in comune, la felice Terra di nessuno fra le nostre lingue materne così diverse; e poiché il dialetto nostro è autoironico e minimalista, ci dicemmo cose semplici come sul cibo di casa. La jota, i sardoni impanati, il vino Malvasia. Alla fine, il suo nazionalismo culturale si scioglieva nel mondo magnificamente bastardo che era sempre stato il Mediterraneo. «Non posso nemmeno pensare di vivere lontano dal mare», confessò squadrandomi con l’occhio glauco. Aveva cent’anni suonati quando andammo insieme a Saint-Malo in Bretagna, per il più grande festival letterario di Francia. Prese due aerei, poi un treno da Gare Montparnasse, e per tutto il tragitto rispose ai giornalisti in perfetto francese. Una volta sull’oceano, respirò a pieni polmoni l’aria salmastra, ma poi sussurrò: «C’è poco da fare, sono e resto un mediterraneo».
«Pidocchi ci chiamavano a noi sloveni» mormorò un giorno, «gente senza lingua e senza civiltà. Nel ’42 finii soldato in Cirenaica, in una legione chiamata “28 Ottobre”. Ero una cimice, ma in battaglia servivano anche le cimici. Insieme a me c’erano camicie nere; io pensavo fossero soldati speciali e invece erano stati mandati a combattere con cannoncini austriaci della Grande Guerra e moschetti buoni per sparare ai gatti. Erano bersagli garantiti, perché gli inglesi sparavano sul nero, odiavano i fascisti. Al fronte non erano affatto alteri come i fascisti che incendiavano i nostri villaggi… Erano ragazzi anzianotti, gente misera, come miseri eravamo noi sloveni. Servi anche loro. Come noi».