A Photographic Negative
23 Luglio 2023Artisti poveri ma belli
23 Luglio 2023di Marco Bruna
Adesso che gli applausi della critica e dei lettori si sono placati e il mercato editoriale ha digerito l’onda di celebrità consegnata alla storia da due Pulitzer meritatamente vinti in tre anni, nel 2017 e nel 2020, si può appendere al collo di Colson Whitehead la medaglia di maestro della narrativa contemporanea. Non pesa più sulle sue spalle l’etichetta volatile di novità; o magari di enfant prodige. Adesso la sfida è più difficile e insidiosa, forse anche più noiosa: un libro all’altezza della fama.
Per i fan del «giovane maestro» Whitehead — 53 anni molto ben portati, due successi clamorosi come La ferrovia sotterranea (2016) e I ragazzi della Nickel (2019) — non c’è notizia migliore che il ritorno in libreria con il secondo volume della trilogia di Ray Carney.
Crook Manifesto è appena stato pubblicato (il 18 luglio) negli Stati Uniti per l’editore Doubleday; in Italia arriverà da Mondadori il 29 agosto. Il protagonista è sempre lui: «Il più grande nessuno di Harlem». Colson ha già raccontato le avventure di Ray Carney nel romanzo precedente, Il ritmo di Harlem (2021, Mondadori, tradotto da Silvia Pareschi; il titolo originale, Harlem Shuffle, è tratto da una canzone di Bob & Earl del 1963, resa poi famosissima dai Rolling Stones nel 1986).
Carney è proprietario di un popolare negozio di mobili e accessori per la casa tra la 125ª strada e Morningside, nell’affascinante, scoppiettante, pericolosa Harlem, il mondo di James Baldwin. Ray vive una doppia vita. È un serio padre di famiglia, uno che si spacca la schiena ogni giorno per dare da mangiare ai figli; ma è anche preda di un lato oscuro, che lo ha fatto scendere a patti con la criminalità locale. Vende oggetti di seconda mano, come un ricettatore qualunque che fa ciò che può per sopravvivere in un mondo pieno di ostacoli.
Nel corso del primo libro, diviso in tre sezioni e ambientato negli anni Sessanta, lo abbiamo visto trasformarsi da semplice «galoppino per i delinquenti di Uptown» a «vero intermediario». Whitehead, che ha il dono delle descrizioni fulminanti, una prosa veloce e snella, gli ha ricamato addosso una descrizione impeccabile: «Ray Carney poteva essere un tantino disonesto, ma non era certo un delinquente». Un pover’uomo che sa bene quanto pesi il colore della pelle in quest’America che sta per scavalcare faticosamente e a caro prezzo i confini della segregazione razziale.
Adesso, con Crook Manifesto, siamo negli anni Settanta. Anche questo nuovo capitolo della vita di Ray Carney è diviso in tre sezioni, che coincidono con tre periodi storici: 1971, 1973 e 1976; quest’ultimo è l’anno delle celebrazioni per il bicentenario della nascita della nazione americana. Le date non sono mai casuali nella produzione di Whitehead. Nel primo libro della trilogia aveva narrato le vicende che vanno dal 1959 al 1964, l’anno del Civil Rights Act, la legge che abbatté la segregazione negli Stati Uniti. Prima ancora, con La ferrovia sotterranea, la sua opera più famosa, si era addentrato nel territorio insidioso del realismo magico (uno dei suoi eroi letterari è Gabriel García Márquez) per raccontarci le traversie di una schiava fuggiasca, la giovane Cora, dalle piantagioni della Georgia verso una vita libera al nord.
Ora Carney è un uomo diverso. Si è ripulito. Da quattro anni ha ormai lasciato alle spalle i traffici della malavita. Si è allargato: nel gennaio 1970 ha comprato, insieme con la moglie Elizabeth, la panetteria vicina e ha ampliato il negozio. Siamo in uno tra i decenni più sgargianti del Novecento, «un decennio pieno di promesse». New York, la città di Whitehead, è il centro di tutto, qui gli estremi trovano un punto di congiunzione. È una metropoli sull’orlo della bancarotta, corrotta, in declino, dove la criminalità ha raggiunto livelli senza precedenti. Ma è ancora la città dove tutto è possibile.
Il sogno americano di Ray Carney passa così dalla speranza degli anni Sessanta al caos dei Settanta, cominciati con lo scandalo del Watergate, continuati con l’ascesa di gruppi militanti come le Black Panthers e la Black Liberation Army, organizzazione politica paramilitare afroamericana in guerra con la polizia razzista di New York.
A cambiare tutto è una richiesta di May, la figlia di Ray. Vuole i biglietti per il concerto dei Jackson 5, in programma al Madison Square Garden. Il concerto è già sold out. È l’evento dell’estate, per un’adolescente è l’evento della vita. May vuole quei biglietti a tutti i costi. E allora il destino di Ray cambia alla stessa velocità di Harlem, un quartiere che un tempo aveva scomodato paragoni persino con il Rinascimento. Le prime, fulminanti, battute di Crook Manifesto lasciano presagire tutto: «Dopotutto erano stati i Jackson 5 a fare tornare in gioco Ray Carney, dopo quattro anni di rettitudine».
Ray sa che non può tirarsi indietro. Per arrivare a quei biglietti si affida a un vecchio ceffo, già incontrato ne Il ritmo di Harlem. È lo sbirro bianco e disonesto Munson. Ray s’imbarcherà con lui in un precipitoso incubo notturno — malavita, corruzione, commerci illegali, borse piene di gioielli rubati, mazzette, sparatorie, rapine… Tutto per fare felice la figlia.
Nella sezione ambientata nel 1973 Pepper, altro personaggio del precedente romanzo, funziona come una sorta di contrappunto di Ray: Pepper è un professionista del crimine che fa la parte di quello pulito, una parte che si porta addosso controvoglia. Pepper mette per un attimo nell’angolo Ray. È stato ingaggiato per fare la sicurezza sul set di un film del genere «blaxploitation», pellicole dal budget bassissimo che hanno come pubblico di riferimento gli afroamericani, piene di sesso e violenza. Ognuna delle tre parti di questo romanzo che guarda ai maestri dell’hardboiled, su tutti Dashiell Hammett, funziona come una storia a sé: l’attrice protagonista del film, Lucinda Cole, già fidanzata di un boss di Harlem, sparisce misteriosamente. Pepper si mette sulle sue tracce. È in questa seconda parte che sentiamo parlare del «manifesto del truffatore» (crook), nel quale viene stabilita «una gerarchia del crimine», dove ci sono cose «moralmente accettabili» e altre no. Anche per uno che vive nella penombra.
Arriviamo così al 1976, l’anno del bicentenario. New York è nel mezzo di una feroce crisi finanziaria. Le case abbandonate di Harlem sono preda di un’ondata di incendi dolosi, che nascondono un piano preciso. Quando un bambino di 11 anni viene ferito da una bomba incendiaria, finendo in ospedale, Carney si sente spinto a cercare la verità: per farlo non può fare a meno dell’aiuto di Pepper.
Il mondo di Whitehead è pieno di corruzione e di violenza, di humor e di razzismo, di azione e di riflessioni. La sua voce fuori campo ci parla sempre, è il commento sociale a margine della finzione narrativa.
Nel prossimo capitolo ci aspetteranno gli anni Ottanta, dominati politicamente e culturalmente dal reaganismo. Colson è sicuramente già al lavoro: ventiquattr’ore dopo avere consegnato Il ritmo di Harlem al suo editor si era immerso nel mondo di Crook Manifesto. «Il più grande nessuno di Harlem» sta prendendo forma in un’altra epoca.
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