Qualche anno fa, odiare Michela Murgia per partito preso andava parecchio di moda. Era come andare a mangiare il sushi, o il kebab il sabato sera. Se chiedevi ai maschi come mai odiassero Michela Murgia, in molti non sapevano rispondere. Se non con frasi come “mi mette a disagio” oppure “mi sta antipatica perché è troppo aggressiva”. La figura di Murgia dava fastidio a un certo genere di maschio, ma quando domandavi loro se avessero mai letto un suo articolo o qualche pagina di un suo libro, si manifestava il tipico imbarazzo di chi sa di non sapere ma finge il contrario. E anche l’odio per Michela Murgia era fatto della stessa pasta, ovvero di un indicibile che tutti mettono in pratica, ma di cui non c’è bisogno di discutere troppo. Tanto è Michela Murgia. Insomma guardatela. Dice le cose con troppa durezza e odia i maschi. È naturale che l’Italia la odi.
Nessuno di quelli che la odiava la conosceva realmente. Ma il patriarcato che, come un organismo vivo, parassitava in ognuno di loro aveva capito alla perfezione cosa stava facendo Murgia con il suo lavoro politico e di riscrittura della realtà e, soprattutto, dei rapporti di potere tra i generi. Murgia stava provando a distruggere i miti del patriarcato, a incasinarli e esporli alla luce del giorno. Anche se molti dei suoi detrattori non lo ammettevano, era questo che irritava di Michela Murgia scrittrice. Si esponeva senza vergogna. E metteva alla luce l’intelletto e quel corpo non conforme, che l’Italia non le ha mai perdonato di abitare. A un certo punto, il corpo di Michela Murgia era diventato il punto nevralgico attorno al quale tutta la brutalità di un intero Paese che odia le donne si concentrava. L’ossessione per il suo corpo, violentemente separato dal suo intelletto, era una punizione antica, quella che si infligge a tutte le donne che disobbediscono. E che, come pena per aver alzato la voce, sono condannate all’eterna oggettificazione. E non c’è punizione più grande per una femminista che ridurla a carne da giudicare in questo eterno concorso di bellezza dove non ci sono vincitrici ma solo condannate a morte.
È la stessa Murgia a descrivere la natura patriarcale e feroce del Corpo della Nazione — quello stesso Corpo che oggi la piange senza pudore — con un post di Facebook, pubblicato il 30 agosto 2019, dove la scrittrice riporta in un lunghissimo elenco quegli insulti indicibili, rivolti verso quel corpo.
Possibile che dal cordoglio nazionale siano stati amputati il bodyshaming, le minacce di stupro, il cyberbullismo e tutto il male di cui siamo state spettatrici inermi? Possibile che la mistificazione della realtà debba permettere a questo Paese patriarcale di farla franca ancora una volta?
Murgia prima che un’intellettuale era stata condannata a essere solo il suo corpo e un altro corpo, il Corpo della Nazione, ne era totalmente ossessionato.
È necessario dirlo. E ristabilire un principio di verità.
Solo nella vulnerabilità estrema Murgia scrittrice è stata integrata nel corpo del Paese, con tutte le sue ferite e tutte le sue verità. Ma da sana e forte era odiata e come lei tutte le donne che in questa società scelgono di non essere razziste, sessiste e fasciste.
La politica le deve delle scuse. La società civile le deve delle scuse. E non perché le scuse siano utili ai morti, ma perché sono necessarie ai vivi. Perché siamo tutte bersaglio d’odio quando questa società dai valori distorti e autoritari fallisce nel tentativo di addomesticarci. Ed è per questo che alla memoria di Murgia è giusto e necessario che si accompagni l’intolleranza contro tutte le violenze normalizzate ai danni delle donne. Mai come oggi è importante guardare al modo in cui questo Paese ha trattato il corpo di Michela Murgia. Il Corpo della Nazione, sebbene sia maschile, prova costantemente ad abortire tutte le sue donne più disobbedienti. Prova a espellerle, isolarle, denigrarle, e condannarle. E le donne che in questo Paese vivono o meglio sopravvivono di scrittura, scegliendo la precarietà e spesso la povertà, hanno il diritto di arrabbiarsi per questa edulcorazione della memoria di Murgia che, nonostante i ciclici tentativi di lapidazione pubblica, alla fine si è salvata dalla ferocia della sua stessa Nazione. Una Murgia lapidata in vita e reintegrata solo nella vulnerabilità della sua malattia, e della sua morte, non ce la meritiamo. Perché non c’è pacificazione senza verità. E la verità è che Murgia con la sua vita, la sua malattia e la sua morte ricorda a tutti noi — guardandoci uno per uno — che alla fine di questa triste e oscena fiera le donne cis e trans che pensano e che lottano, nel bene e nel male, sono il loro corpo.