Il Senegal piange i neonati bruciati vivi in ospedale mentre attracca a Dakar la più grande nave ospedale del mondo
2 Giugno 2022Mai così tanti contratti a tempo i precari sono più di tre milioni
2 Giugno 2022Ma ritrovino vigore
di Sabino Cassese
Sono molti i segni di esaurimento della forma-partito. Una volta tutti i partiti avevano un radicamento nazionale; ora tre dei principali partiti hanno la loro base solo in una parte del territorio. Una volta i partiti erano pochi e coesi (le correnti ne arricchivano il pluralismo, non li dividevano); ora sono frammentati e divisi al loro interno, mentre loro frazioni sono tentate di creare sempre nuove forze politiche. Una volta avevano milioni di iscritti; ora i loro membri sono un ottavo di quelli del passato e il numero di iscritti rispetto ai votanti si riduce, mentre si cercano surrogati, agorà o campi larghi. Una volta i partiti avevano basi elettorali fedeli, con un forte senso di appartenenza; ora gli elettorati sono estremamente volatili (alcuni partiti, in pochi anni, hanno raddoppiato o dimezzato, o raddoppiato e poi dimezzato, il proprio seguito, comprendendo così che il vento può nuovamente girare in un breve volgere di tempo). Una volta i leader dettavano la linea, ora — come ha osservato Angelo Panebianco su questo giornale il 30 maggio scorso — i leader sono divenuti follower, in perenne ascolto dei sondaggi e dei risultati delle elezioni locali. I congressi di partito erano una volta un rito rispettato; ora sono divenuti una rarità. Lì una volta maturavano progetti e proposte, mentre ora basta un argomento minuscolo come quello dell’inceneritore romano a infiammare le parti.
U na volta tutti i partiti portavano nella loro denominazione la parola partito, ora rifiutata da tutte le forze politiche in Parlamento, con una sola eccezione.
Se i partiti sono un magma in continua ebollizione e dividono, invece di unire (mentre i leader si muovono per tentativi quotidiani, e un po’ alla cieca), deve concludersi che rappresentano una figura in via di estinzione? Prima di giungere a questa drastica conclusione, proviamo a cercare la spiegazione di questa «disarticolazione del sistema politico istituzionale» (così l’ha definita Alessandro Campi su Il Mattino del 30 maggio scorso).
Vorrei provare a indicare una ragione — quella che ritengo fondamentale — della ossificazione dei partiti: la realizzazione/esaurimento delle tre grandi tradizioni che hanno dominato la storia novecentesca della società italiana, quella liberale, quella popolare e quella socialista.
I protagonisti di queste tre grandi tradizioni compirono azioni stupende, opere bellissime e ci hanno trasmesso un ricco tesoro di forme di pensiero, di idealità, di istituzioni, che si sono realizzate, talora in modo incompleto, talora in modo contraddittorio, per cui oggi, parafrasando una nota frase di Benedetto Croce, non possiamo non dirci tutti liberali, popolari, socialisti. Questo perché nessuno può rifiutare l’idea che l’individuo rappresenti un valore autonomo rispetto allo Stato, la cui azione va limitata, per assicurare libertà come quella di parola, di stampa e di associazione, il rispetto del diritto, l’indipendenza dei giudici, l’economia di mercato. Perché nessuno può rifiutare di riconoscere il ruolo della famiglia, delle autonomie territoriali e del decentramento, della libertà di religione e di quella di insegnamento, il posto della piccola proprietà, della piccola e media impresa e dei corpi e delle comunità intermedie. Perché nessuno può rifiutare l’idea che la Repubblica debba assicurare l’eguaglianza sostanziale, in primo luogo garantendo a tutti assistenza sanitaria, istruzione, lavoro e protezione sociale.
Ora che abbiamo fatto un lungo percorso, guidati da questi tre grandi movimenti ideali, che nel corso della storia novecentesca hanno anche trovato il modo di confluire su obiettivi comuni (distribuendo a tutti non «bonus» o redditi variamente denominati, ma beni più consistenti come istruzione, sanità, pensioni, mentre assicuravano libertà e rispetto per le autonomie e i corpi intermedi), non sappiamo più dove andare, e quindi la politica è divenuta scaramuccia quotidiana. Chi ci ha preceduto ha compiuto pacifiche rivoluzioni, per le quali valori di libertà, solidarietà, fratellanza sono scritti persino nella Costituzione, in quella sua prima parte che nessuno ha mai posto in dubbio in più di un settantennio.
Ora nascono nuovi bisogni, che vanno interpretati (bisogna capire «come sono davvero cambiate le cose del mondo»: Angelo Panebianco, 30 maggio), sui quali la politica deve riflettere e formulare soluzioni, aggregare consensi, stabilire alleanze. Ed è questo che manca alla forma partito di oggi: vigore intellettuale nell’interpretare bisogni e sentimenti, e poi capacità di costruire intorno ad essi programmi e progetti, preparandosi a gestirli.
Dei partiti c’è bisogno, perché non vi è altro modo con il quale la società possa dialogare con il governo, la piazza farsi ascoltare dal palazzo. Ma i partiti debbono ridiventare forze vive, uscire dagli schemi consueti e interrogare la nuova realtà, intercettare una domanda di politica tanto viva quanto insoddisfatta, selezionare nuovo personale, fare programmi, individuare chi sappia tradurli in realtà.