Come era prevedibile, Matteo Salvini ha già annunciato che la legge di bilancio uscirà dalle due Camere molto diversa da come vi è entrata. E qui non si stupisce quasi nessuno, dopo che nello scontro tra velleità e realismo ha prevalso il secondo. Al punto che sulle pensioni l’ex ministro Elsa Fornero ha lasciato cadere, forse con una punta di ironia, che il testo messo insieme dal centrodestra è persino più rigoroso del suo.
Si dirà che sono le solite scaramucce che accompagnano ogni anno la legge finanziaria. Può darsi, ma con un paio di differenze.
La prima è che Palazzo Chigi aveva fatto uno sforzo estremo per tenere in equilibrio i conti, a costo di farsi accusare da sinistra di sacrificare la crescita economica. Mentre al tempo stesso la critica più severa viene da osservatori indipendenti, ossia poco o nulla rappresentati sul piano politico e quindi talvolta in contraddizione tra loro: la manovra non agisce in modo significativo per ridurre la montagna del debito pubblico e peraltro rinuncia in partenza a un apprezzabile taglio delle tasse (a parte la riduzione del cuneo fiscale, uno degli aspetti positivi dell’intervento). In sostanza, il testo dell’esecutivo nega i presupposti culturali di una destra che voglia proiettare l’idea di un disegno politico-economico alternativo o solo diverso dal centrosinistra. È una manovra concepita con il bilancino, simile ad altre fatte in passato da esecutivi di altro colore.
La seconda differenza riguarda la portata di queste frizioni tra Salvini e Giorgia Meloni.
La premier aveva chiesto alla maggioranza di non presentare emendamenti, anzi sembrava che avesse imposto la sua volontà in proposito. Senza gran successo, a quanto sembra: il che incide sulla leadership. Per il momento l’insofferenza del leghista riguarda il timore di perdere quote di consenso elettorale, considerate irrinunciabili da un partito bisognoso di risalire la china per non soccombere. Ma fra qualche settimana lo scenario può cambiare e non in meglio. Si arriverà a discutere in Parlamento la ratifica del Mes, il meccanismo che regola il fondo salva-Stati.
Sappiamo che la Lega è aspramente contraria, a differenza di Forza Italia. Anche Fratelli d’Italia era contraria un tempo, tuttavia da un anno a questa parte ha giocato sui rinvii senza mai inchiodarsi a una posizione netta.
Ora si avvicina il momento della verità, salvo che qualcuno non escogiti un altro gioco di prestigio. Senza dubbio Giorgia Meloni non è oggi la persona conosciuta ai tempi dell’opposizione. È consapevole che rifiutare il Mes significa inseguire un modello d’Europa diverso dall’attuale Unione. E non sembra avere la forza e nemmeno la volontà di tentare una simile avventura. Se le avesse, anche la legge di bilancio sarebbe nata su altre basi. D’altra parte siamo in campagna elettorale e Salvini non vorrà perdere l’occasione di distinguersi e di mettere qualche altro bastone nelle ruote della sua partner, in realtà acerrima rivale. Il Mes è il perfetto terreno di scontro: una sorta di ordalia sotto gli occhi dei partner europei.
Gli stessi che negli ultimi mesi hanno accettato più o meno di buon grado la premier della destra, ma danno sempre l’impressione di attenderla al varco.
Finora, va detto, la presidente del Consiglio in politica estera non ha sbagliato quasi nulla, dall’Ucraina al Medio Oriente. Ma qui siamo nell’ambito della politica europea, un sentiero assai accidentato. Nessuno può fare a meno dell’Italia, tuttavia la cornice delle regole è rigida, come è noto. Fra poco sapremo in quale atmosfera il Paese andrà al voto della prossima primavera. Cioè se la tensione Salvini-Meloni è destinata a ricomporsi ovvero ad acuirsi, pur senza sfociare in una crisi aperta.