Protagonisti e trame del “consorzio” lombardo mai visto al Sud che farebbe riscrivere la storia della lotta alle cosche
La procura distrettuale antimafia di Milano sostiene in una richiesta al giudice del tribunale del capoluogo lombardo — che l’ha rigettata motivandola — che c’è una grande alleanza societaria tra le mafie tradizionali del nostro Paese, tanto da creare un “consorzio” tra queste organizzazioni: Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra, per gestire e condividere gli affari.
Se fosse vera questa alleanza sarebbe un fatto gravissimo. Nelle carte si parla di un «network criminale evoluto ed espressione di un sistema di tipo confederativo nel quale le mafie “ortodosse” proiettano interessi economici e criminali estremamente qualificati».
E quindi, se così fosse, ci troveremmo davanti a una nuova “supercupola”. Nessuno però finora, almeno nei distretti giudiziari in cui sono nate e cresciute le mafie tradizionali, si è accorto del nuovo ingresso “societario” nel panorama nazionale. Ci troveremmo, così come viene descritta nelle migliaia di pagine depositate dagli investigatori a Milano, davanti a una “mafia trepuntozero” e sarebbe necessario affrettarsi a riscrivere la storia giudiziaria della lotta alle cosche, da Palermo a Catania, da Reggio Calabria a Catanzaro e da Napoli a Roma, che è fatta soprattutto di sentenze.
I pm delle procure distrettuali del Mezzogiorno non hanno ricevuto segnali investigativi o catturato movimenti da parte dei capimafia indagati da configurare qualcosa di nuovo in ambito di alleanze mafiose. Già l’alleanza è qualcosa che trova difficile applicazione nella realtà mafiosa, perché ogni organizzazione va per la sua strada senza farsi la guerra reciprocamente. E nemmeno gli investigatori che controllano il territorio hanno notato questa proiezione che mette insieme le tre mafie. Perché se risultasse che Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra hanno creato una “supercupola” con base a Milano, allora ci sarebbe da tremare.
Le risultanze investigative dalla Sicilia alla Calabria, dalla Campania al Lazio, non portano nella direzione sostenuta dai pm lombardi. Occorre a questo punto fare distinzioni e comprendere se gli indagati a Milano hanno proceduto per proprio conto, e quindi si tratta di un clan autonomo, oppure se ci sono elementi da cui emerge una “proiezione” delle cosche. Anche se i protagonisti dell’inchiesta sono di origine meridionale, e affiliati a clan diversi, è possibile che possano avere agito in autonomia e quindi aver creato un clan autoctono?
La Procura di Milano è chiamata a operare su un territorio complesso, estremamente attivo sul piano delle dinamiche dell’economia. La Lombardia è la regione, al di sopra di quelle del Meridione, in cui sono nate le mafie tradizionali, dove è più estesa e preoccupante la presenza dei clan, in collegamento, come hanno sempre svelato le indagini, con le mafie tradizionali. Ed è stata proprio l’intensificazione nel capoluogo lombardo del carattere imprenditoriale delle cosche della ’ndrangheta a spingere i pm a occuparsi con buoni risultati di reati finanziari caratterizzati dall’aggravante di mafia.
Le inchieste hanno certificato come in Lombardia oltre alle mafie italiane, agiscono anche quelle locali, cioè nuovi clan, composti prevalentemente da stranieri come albanesi, che operano in modo invasivo e con metodi del tutto paragonabili a quelli delle organizzazioni mafiose.
Lo scorso agosto il procuratore di Milano Marcello Viola, durante l’audizione in commissione antimafia ha descritto questo nuovo scenario mafioso: «Recenti evidenze delle investigazioni hanno rivelato l’esistenza di accordi, anche stabili e duraturi, fra le diverse componenti: calabrese, siciliana e criminalità di stampo camorristico, di un sistema di cointeressenze, di rapporti fra gruppi, a volte disomogenei, ma comunque associati attraverso l’apporto comune di capitali, la predisposizione di mezzi, la messa a disposizione di risorse umane, la costituzione di società, tutti elementi funzionalmente aggregati dal fine comune di trarre profitto da molteplici attività, apparentemente lecite in taluni casi, che costituiscono la fonte delle entrate di queste organizzazioni criminali».
Viola spiega il punto che unisce i boss: «Si tratta di dinamiche mafiose che, operate in una costante azione illecita spesso di basso profilo e di impatto limitato, definiscono tuttavia un network criminale evoluto, espressione di un sistema di tipo, non voglio dire “confederativo”, ma sicuramente rivelatore dell’esistenza di accordi che si saldano su interessi concreti. Al di là degli accordi di tipo ordinamentale, operativo o confederativo, queste mafie si incontrano su interessi concreti: laddove si tratta di fare affari queste mafie si incontrano, essendo chiaro a tutti che è molto più produttivo un sistema in cui si sta in pace rispetto a un sistema in cui si sta in guerra, attirando l’attenzione dell’azione repressiva dello Stato. Uno dei settori in cui si raffinano questi rapporti è proprio quello del narcotraffico».
Resta complicato provare che Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra, che sono sempre andate ognuna per la propria strada e hanno sempre pensato ai loro affari, si siano sedute allo stesso tavolo per dividere il business sotto la Madonnina.