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Il paradosso dell’occidente: i popoli della fetta di mondo ancora più sicura, sono i più afflitti da una costante insicurezza di massa. A chi conviene, quali conseguenze ha e come si contrasta, secondo il sociologo della Federico II di Napoli
Autoconvocata agli stati generali della paura, l’Europa occidentale sembra perenne prigioniera di quest’emozione, che quando non la paralizza, la logora ogni giorno. Un paradosso, per cui i popoli della fetta di mondo malgrado tutto ancora più sicura, risultano i più afflitti da una costante insicurezza di massa.
Massimo Cerulo, ordinario di Sociologia nell’Università Federico II di Napoli, studioso delle emozioni e autore di numerose pubblicazioni (l’ultima con Paolo Jedlowski è ‘Spaesati’, per il Mulino), cita una domanda di Émile Cioran e relativa risposta: “Una cultura marcia scende a patti con il suo male? Una società malata ama il virus che la consuma, non si rispetta più”.
Gli orrori di Al Qaida e dell’Isis, poi il coronavirus personalizzato come un nemico “che rende folli”, per dirla con Bernard-Henry Lévy. Quindi le immagini della guerra in Ucraina, ora nel Medio Oriente. C’è sempre una nota collettiva dominante: la paura.
Quando la narrazione mediatica utilizza la prospettiva della paura, l’effetto ha un’ampia ricaduta sociale, perché se abbiamo paura contagiamo gli altri e ne veniamo contagiati. La paura si articola tramite il filtro delle categorie culturali con cui ordiniamo il mondo e le esperienze, è uno specchio dei nostri valori e delle relazioni quotidiane e si propaga in forma liquida, come osservava Bauman. Viviamo in un continuo stato di allarme, veicolato attraverso media e piattaforme sociali.
A chi conviene la paura?
Prima di tutto ad alcuni attori politici o militari, che utilizzano la cultura della paura come forma di potere devastante per esercitare il controllo. Ma è di per sé frutto della società capitalistica sviluppata e beneficia anche un vastissimo mercato. La dimensione digitale ne amplifica gli effetti emotivi, al punto che la società contemporanea è diventata simile all’antica Francia definita da Lucien Febvre: “Peur toujours, peur partout”. Lì la paura era giustificata dal buio della notte, oggi è alimentata dai media e dai social, che producono ondate di panico morale.
Conseguenze?
Nuove forme di solitudine individuale, perché gli altri non sono visti più come colleghi, conoscenti, membri della comunità, ma come rivali o comunque soggetti di cui diffidare. Quando non produce isolamento, la paura per reazione genera violenza.
Una caratteristica significativa è l’attenzione monotematica. L’invasione dell’Ucraina, che cancellò la pandemia come argomento unico dei talk show, ora è quasi soppiantata dal Medio Oriente.
I monodiscorsi propongono una visione della realtà che offusca tutti gli altri eventi, con una perdita della prospettiva globale. La paura nutre l’immaginario collettivo, ma perde il ruolo formativo con cui insegnava a comprendere e soppesare i pericoli indicando il proprio posto nel mondo.
Come si contrasta quest’emozione?
Penso alle parole che il matematico Renato Caccioppoli pronunciò in una lezione: quando qualcosa vi fa paura – disse – prendetene le misure. Quanto è larga, alta, profonda, e quanto dura. Vi accorgerete sempre che non è grande come l’avevate immaginata. Lui anticipava il giusto approccio alla società digitale con questo richiamo a non spaventarsi, a svelare la coltre che ricopre la realtà, a risvegliare i significati dormienti. Informarsi con criterio, non cedere ai contagi, comprendere attraverso le argomentazioni, non farsi trascinare dalle ondate emozionali suscitate dalle immagini e dalle fake news.
Perché l’Europa è così esposta alla paura?
Ci siamo accomodati in una società del benessere. In Italia, malgrado i dati sull’aumento della povertà e la critica alle politiche dei singoli governi, contiamo ancora una solida mole di risparmi. Salvo la vicenda dell’ex Jugoslavia, fino alla guerra ucraina non avevamo più assistito a un conflitto sul nostro continente dal 1945. Ora però le incertezze circa la costruzione sociale del futuro sono cresciute, mentre è diminuita la nostra capacità di agire e prescindere da stimoli collettivi che minano lo spirito critico. Siamo costretti a continue prestazioni di efficienza, ma con un livellamento che scoraggia chi vorrebbe vivere esistenze diverse. Poi ci sono temi tabù di cui si evita di parlare, uno per tutti quello dei suicidi giovanili, che invece vanno affrontati cominciando dalle università, dove l’insegnamento non deve essere più solo ex cathedra ma come in un cenacolo. Gli studenti devono esprimersi, imparare a dire di no, appassionarsi alle domande. Altrimenti continueremo a sfornare giovani dal pensiero omologato, che si comportano come sonnambuli perché desiderano solo essere come gli altri. È necessario contrastare il collettivo sentimento di ‘cupio dissolvi’.
Nasce dal senso di colpa occidentale?
Ci sentiamo in colpa per quel che abbiamo ereditato e ciò alimenta il desiderio di scomparire chiedendo prima “scusa”: che il mondo vada dove deve finché non saremo spazzati via. Il fenomeno dei ‘neet’, che non studiano né lavorano, è l’espressione pericolosissima di una società che si definisce civile e invece sembra attendere la propria fine. L’Europa generava cultura, innovazioni tecnologiche, prospettive critiche. Ora sembra in balia dei flussi che arrivano dall’America, dalla Cina, da Paesi e poteri da cui rischiamo di essere telecomandati. Siamo alla stregua di sonnambuli, che credono ancora di possedere il talento e la genialità di quella vecchia Europa per cui proviamo colpa. Siamo invece sotto l’effetto di una pozione magica. La paura.