«Non esistono ragazzi cattivi. Esistono ragazzi che hanno storie difficili. Dio è molto più presente nelle loro vite che non nelle vite dei bravi ragazzi. I ragazzi della mia comunità di Vimodrone e quelli del carcere minorile Beccaria di Milano mi chiedono spesso di Dio. Per tutti la questione originale, quasi primitiva, è una sola: ma se Dio esiste, perché lui ha permesso che gli altri facessero a me quello che mi hanno fatto? Ma se Dio c’è, perché ha permesso a me di fare quello che ho fatto agli altri? I bravi ragazzi, sia quelli che vanno in parrocchia sia quelli che non lo fanno, non hanno le domande urgenti dei cattivi ragazzi».
Don Claudio Burgio, classe 1969, non ha nessuna movenza tardo pasoliniana filtrata attraverso la lente deformante delle TV e dei social media che, oggi, caratterizza qualche volta i preti giovani. E non ha nemmeno la postura ostile e di battaglia che hanno i preti “politici” della generazione che lo ha preceduto. Siamo alla comunità Kayros di Vimodrone. Il muro che divide la struttura da quel che resta della campagna è ricoperto da graffiti, il cancello è sempre aperto, le porte non hanno le chiavi: «Questo non è un penitenziario. Se i ragazzi vogliono uscire, è una loro libera scelta. Lo fanno di rado. Tornano sempre». Il Comune di Vimodrone ha dato il terreno in concessione gratuita per 25 anni. La comunità è stata costruita per due terzi con un mutuo e per un terzo con i fondi della Fondazione Cariplo, ai tempi della presidenza dell’avvocato Guzzetti: «Siamo in equilibrio finanziario. È molto importante», spiega con il pragmatismo tipico del cattolicesimo lombardo.
La cucina è bianca e confortevole. La tavolata è lunga. I ragazzi sono già seduti. Parlottano in un patois di italiano, inglese preso dai brani rap, lingue africane. Si prendono in giro. C’è un clima serrato di misurazione dell’altro, che però non è ostile, ma è arrotondato da un calore di famiglia. Don Claudio, prima di mangiare, li presenta. Sono italiani di seconda generazione, figli di immigrati dai Balcani e dal Medio Oriente. Sono poco più che bambini arrivati dall’Africa dopo viaggi lunghi e terribili.
Don Claudio aveva la loro età negli anni Ottanta: «La memoria è schiacciata sul riflusso, l’edonismo, i paninari. Ma è stato un periodo violento e crudele. A Milano la droga, soprattutto l’eroina, riempiva le strade di persone stravolte e con il laccio emostatico al braccio o ai piedi. Oggi nessuno ricorda più l’Aids, che ha falcidiato tossicodipendenti e omosessuali. Abbiamo visto scene in Piazza San Babila come a Quarto Oggiaro che, oggi, si vedono solo nel bosco di Rogoredo».
In tavola viene portato polpo e patate. Racconta don Claudio: «Mio padre si chiama Nazareno. È arrivato a Milano da Ravanusa, un piccolo borgo in provincia di Agrigento, come i ragazzi nordafricani e mediorientali di oggi. Dopo il diploma di geometra, aveva fatto un anno di noviziato. Ma, poi, aveva scelto la vita laica trovando lavoro come assicuratore. Mia mamma Laura era una maestra elementare. Vivevamo a Porta Genova. Mi sono diplomato al liceo classico Manzoni. Frequentavo l’oratorio di San Cristoforo sul Naviglio e la chiesa di Santa Maria del Rosario, al confine con il Giambellino. Ero un ragazzo normalissimo. Ho avuto una adolescenza bella quieta. Troppo quieta. Avevo le mie fidanzate. Mi prendevo le mie ubriacature del sabato sera. Milano era una città piena di solitudini, ma era anche opulenta. Giocavo a calcio con gli amici. Suonavo nei pianobar un repertorio tutto italiano. In quella Milano il cardinale Carlo Maria Martini proponeva la sua scuola della parola. Era l’equivalente dell’assemblea di Sichem raccontata nel Libro di Giosuè. Martini affascinò tanti di noi con la sua interpretazione del collegamento fra la vita e la Bibbia. Il discernimento vocazionale compiuto in quell’ambiente è stato molto particolare. Il cardinale aveva un grande dono. Riusciva a riunire tutti, credenti e non credenti, e intorno a lui tutti provavano a fare comunità di menti, di intelletti e di cuori».
In tavola arriva la pasta cucinata con i frutti di mare, buonissima. «Quando, a ventun anni, ho scelto di entrare in seminario a Venegono, la prima sera la lettura è stata il Deuteronomio 8,2: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per renderti umile e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore”. Quando, a ventisette anni, mi sono fatto prete, il brano della liturgia della prima messa è stato di nuovo quello. Ho lavorato tutta la vita intorno a questo passo. E, in fondo, ci ho costruito intorno il percorso dei ragazzi. Il ricordo della memoria viva e dolorosa. La rielaborazione di un passato che è un gigantesco iceberg ghiacciato e oscuro di cui il reato commesso da ognuno di loro è soltanto la punta».
Nei diciassette carceri minorili italiani si trovano poco più di quattrocento ragazzi. Le ragazze non sono più di venticinque. Dice don Claudio: «I ragazzi non sentono il dolore dell’altro. Nel loro intercalare è tutto un “bro…fra…”, ma in realtà sono degli analfabeti sentimentali ed emotivi. Non sanno che cosa è l’amicizia. La vita in comunità pone dei limiti e li aiuta a costruire. Facciamo periodicamente una assemblea in cui i nostri cinquanta ragazzi parlano».
La tavola si riempie di prosciutto, formaggi, verdure cotte in ogni modo, salmone fatto friggere, buste di pane fresco che vengono aperte. Don Claudio parla a me e, intanto, parla con ciascuno di loro della partita di calcio del pomeriggio, di episodi di vita di strada sdrammatizzati e resi grotteschi dal racconto, di riferimenti al carcere che sembrano chiari ma che in realtà sono pieni di sottintesi. Non ha nessuna forma retorica pretesca. E non ha nemmeno l’attitudine carismatico-plagiativa che segna il problema del potere in ogni tipo di comunità. Don Claudio, che a gennaio da vice cappellano diventerà cappellano del Beccaria succedendo a don Gino Rigoldi, da sempre cerca una propria identità originale e autonoma: «Ci sono preti che hanno misurato la loro fede con il caos politico e il conflitto sociale degli anni Sessanta e Settanta. Sono testimoni importanti. Il mio don Gino a Milano, lo scomparso don Andrea Gallo a Genova o don Luigi Ciotti a Torino. Io non ho mai cercato una rigidità negli atteggiamenti pubblici e privati che mi portasse a essere marginalizzato nella Chiesa stessa. Già mi occupo di emarginati. Ci manca solo quello. In questo momento a Carugate aiuto il titolare della parrocchia dicendo la prima messa del mattino, facendo le confessioni, benedicendo le case. Sono per lo scontro duro, quando serve. Conosco la crudeltà delle cose. E quanta energia serva per contrastarla. Ma, sempre, in un contesto di ricerca di unità».
Nella costruzione della sua identità, don Claudio ha sviluppato il suo profilo da musicista: «Da piccolo ero cantore solista della cappella musicale del Duomo. Ho studiato pianoforte, organo e composizione. Nel 2007 sono diventato direttore della cappella. Ho rifuggito l’immagine del musico di corte, provando a integrare la musica con il sacerdozio e con il lavoro con i miei ragazzi». Anche per questo non c’è nulla di estemporaneo o di esibizionistico nel lavoro compiuto, a Vimodrone, sulla musica: «In molti di loro prevale la violenza, perché non c’è la parola. Qui abbiamo creato un laboratorio musicale che è stato prima di tutto un laboratorio di narrazione. E, adesso, abbiamo uno studio di registrazione. Come comunità Kayros siamo molto legati a Marracash. So che ha pensato a noi quando ha scritto, nel testo di “Laurea ad honorem” cantata con Calcutta, il verso “A tutti i ragazzi disastrati/Venuti su dritti/Che vivono in case cadenti/Fra le rovine delle loro famiglie”. I due ultimi album di Marra, “Noi, loro, gli altri” e “Persona”, sono folgoranti. Non a caso ha vinto il Premio Tenco. È il Fabrizio De André di oggi. Baby Gang, Sacky Seven Zoo e Simba La Rue, tre nostri ospiti, sono ormai personalità della scena hip hop, rap e trap. Baby Gang non parlava con nessuno. Non diceva una parola. Con la musica è esploso. Ora passa a bere il caffè al mattino. Sachi ha registrato un brano con i cori dei ragazzi di Kayros».
Questi ragazzi sono inseguiti dalle loro stesse vicende personali. Il mese scorso il tribunale di Milano ha condannato a cinque anni e due mesi Baby Gang – Zaccaria Mohuib – e a sei anni e quattro mesi Simba La Rue (Mohamed Saida Lamine) per avere gambizzato e rapinato il 3 luglio del 2022 in Corso Como a Milano due ragazzi di origine senegalese. Non c’è retorica lacrimevole. Non c’è languore nelle parole di don Claudio: «Le loro vite sono, da sempre, tutte sfasate. E possono essere sfasati i tempi della loro evoluzione umana e i tempi della giustizia».
Apriamo due mezze torte da forno che ho portato io. Una metà alle mele. L’altra allo yogurt. Noi due ci diamo dentro. Qualche ragazzo dice di no: «Hanno delle strane timidezze. Qualche volta sembrano dei bambini. Ma mi sa che alle quattro, se vengo a fare merenda qui in cucina, non ne trovo più nemmeno una briciola», sorride.
Hanno fatto di tutto. Hanno provato di tutto. E, mentre beviamo il caffè, don Claudio – ex cantante di pianobar, musicista classico, prete compiuto – pronuncia quasi sottovoce il verso di Marracash nella canzone “Sessantaquattro barre di delirio”: “Gli sbarbati piccoli reati/Che però sommati sconti un omicidio/Bella don Claudio, al Barrio’s, ai ragazzi di Kayros”.