di
Antonio Rocca
Amici geniali, Antonio Mancini e Vincenzo Gemito furono allievi di Domenico Morelli, patrono dell’arte napoletana della seconda metà dell’Ottocento. Nati nel 1852, erano coetanei di Van Gogh e come l’olandese furono attratti e sconfitti dalla Parigi impressionista. La Ville Lumière era una macchina elettrizzante ma spietata, il legame tra quei due ragazzi ne uscì disfatto. Avevano sognato di fare come De Nittis e Boldini, rientrarono in Italia sconfitti e tracciarono strade parallele, che il Museo dell’Ottocento di Pescara ripercorre con una mostra curata da Manuel Carrera, Ferdinando Mazzocca, Carlo Sisi e Isabella Valente (fino all’11 marzo).
All’ingresso del bel palazzetto liberty, un tempo sede della Banca d’Italia, si è accolti dal Pescatore.La scultura di Gemito fece scandalo al Salon del 1877: lo scugnizzo è guizzante, come il pesciolino stretto al petto dal ragazzo arrampicato su uno scoglio. Un istante vivo eppure sospeso in un clima atemporale, grazie a una vocazione classica che lo scultore aveva affinato studiando i bronzetti di Pompei e che poi avrebbe virato in direzione ellenista. Tra le numerose opere prestate da Intesa Sanpaolo, c’è anche un pregevole ritratto di Morelli, un busto del 1875. Ma di Gemito sono esposti anche molti disegni, perché, soprattutto con il secolo nuovo, l’artista si dedicò con passione alla grafica. Notevole la serie dei suoi autoritratti, con l’occhio acceso e la barba da filosofo antico. Felice il confronto con Autoritratto della folliadi Mancini, schizzato nel periodo del ricovero in un ospedale psichiatrico.
Dopo Parigi, i due artisti vissero una stagione di disagio psichico: Gemito si rinserrò in casa per un ventennio e Mancini fu preda di una claustrofilia, nella quale s’avvertono echi letterari. D’Annunzio aveva dedicato Il piacere a Francesco Paolo Michetti, artista della medesima generazione di Antonio e Vincenzo, o meglio, per usare le parole affettuose di Candida Carrino, di Viciénzo e Totonno. In un intervento brillante, presente nel ricco catalogo pubblicato da Silvana Editoriale, Carrino ci avvicina ai protagonisti della mostra e ci fa intuire per quali vie vissero la riscoperta di Velázquez e Rembrandt. Strade alternative a quelle battute da Courbet o Manet, ma Napoli non aveva bisogno del Louvre per tornare alle fonti della modernità: Caravaggio e lo sconvolgente Ritratto di Paolo IIIdi Tiziano erano di casa.
Mancini parte da Verità, una labirintica meditazione su Las meninas.
Antonio ha poco più di vent’anni quando congegna questo gioco di specchi, che tiene in serbo quanto si paleserà al termine di un viaggio notturno e introspettivo. Il meccanismo, volto a confondere materia e memorie, rimane il medesimo, ma con la maturità il pittore forgerà un idioletto barocco e onirico: la pasta cromatica diverrà organismo.
Nel 1904 questa feconda erranza, questo godimento privato s’incarna nella superfetazione venefica e allucinatoria de L’antiquario.Il padre di Antonio, che si prestava a fargli da modello, si china su un palinsesto fantasmagorico, carico di preziose iridescenze. A partire da qui l’autonomia della materia- colore si fa tale, che verrebbe voglia di girare alcuni dipinti degli anni Dieci e Venti per farne degli incunaboli dell’Informale. Sarebbe uno sbaglio, perché l’unicità di Mancini consiste nell’aver incarnato lo stratificarsi del tempo nella coscienza. L’insula figurativa non è un residuo, è invece il motore del processo astrattizzante.
Nel 1928 Mancini si congeda conLo scorfano, un’epifania dissugata e quasi incomprensibile se posta accanto ai magmatici precedenti. Disposto su un piatto, o forse prigioniero di un minuscolo acquario, questo pesce rosso per un verso ci porta indietro di due secoli, fino aLa razza di Chardin, e per l’altro si fa avanguardia, accostandosi a Soutine. Un capolavoro che anticipa i pesci non commestibili di Braque, poissons empoisonnés derivati dal Courbet, altissimo, delle trote. Sono tutti autoritratti drammatici, dipinti da un altrove, come confessioni di vite vissute.
La mostra di Gemito e Mancini offre anche l’opportunità di scoprire il Museo dell’Ottocento, un gioiello fortemente voluto da Venceslao Di Persio e Rosanna Pallotta, che ne sono anima e ragione. Per dialogare con le opere in prestito, il museo si presenta riconfigurato, piuttosto che stravolto. Il terzo piano è integro, ci sono barbizonniers,macchiaioli, Fontanesi, Cremona, Michetti… Nella sala francese spicca Les ruines de Château-Gaillard,
tela del 1873 che Charles-François Daubigny ha costruito in forza di pennellate lunghe e pastose. Un tratto costruttivo e deformante che ispirò Van Gogh, tanto che, poco prima di morire, Vincent volle dipingere tre volte la casa del maestro a Auvers-sur-Oise.
Composta da duecentosessanta opere, la collezione permanente vanta anche due Courbet ed è un caso forse unico in Italia. C’è laLoue, fiume della natia Franca Contea, e un ruscello svizzero dipinto durante l’esilio: le sue trote vengono da lì.