La Bibbia è piena di economia e di moneta, dalla Genesi all’Apocalisse. Anche Gesù conosce bene il linguaggio dell’economia. Ne fa ampio uso, per una competenza che forse aveva appreso nei suoi primi anni di lavoro nella bottega di Giuseppe – in Marco troviamo, per Gesù, la definizione di «falegname» (Mc 6,3) e non solo figlio del falegname. I primi apostoli vengono chiamati da Gesù mentre ritiravano le reti, quindi mentre lavoravano: nella Bibbia il lavoro è spesso luogo di teofania e di vocazioni (Eliseo, Mosè, Davide). Erano pescatori, quindi avvezzi all’azione collettiva produttiva, e così furono particolarmente capaci per la nuova azione collettiva della nascita della Chiesa – neanche un’opera spirituale nasce senza la capacità di lavorare insieme.
Ma, nonostante la grande stima del lavoro presente nella Bibbia e nei Vangeli, la vita dei lavoratori, in particolare degli imprenditori e degli operatori economici non è stata affatto facile nel mondo cristiano e poi cattolico, dove la diffidenza morale verso gli imprenditori è iniziata presto (S. Ambrogio) e cresciuta durante la Controriforma. Spendere soldi di altri, aumentare il debito pubblico, il consumo, le professioni liberali e il posto fisso erano cose buone: ma creare impresa e posti di lavoro era attività di Mammona. Anche questo sguardo è eredità dello spirito cattolico del capitalismo. Non dobbiamo quindi stupirci se nella nostra bella Costituzione non troviamo la parola imprenditore (né banca).
In questo filone di riflessione si inserisce Gesù imprenditore. Il volume è un meritorio tentativo di mettere in dialogo il mondo dell’impresa con i vangeli. A 74 «imprenditori, manager e operatori economici» è stato chiesto dagli autori di reagire di fronte a otto brani evangelici da loro selezionati. Eccoli: La parabola dei lavoratori a giornata (Mt 20,12-16), il suicidio di Giuda (Mt 27,6-10), la parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,1-9), quella del servo spiegato (Mt 18,32-35), il brano sulle tasse, “Cesare e Dio” (Lc 20,25), la parabola della costruzione della torre e del re che si prepara ad una guerra (Lc 14,28-32), quella della dracma perduta (Lc 15,18) e infine la parabola dei talenti (Mt 25,14-18). Alcuni dei brani erano prevedibili, altri meno. Ne mancano però altri forse necessari: il giovane ricco, le vocazioni di Matteo/Levi e di Zaccheo, la cacciata dei mercanti dal tempio, Dio e Mammona. Mancano i vangeli di Giovanni e Marco, Paolo, gli Atti, e chiaramente tutto l’Antico Testamento. Le risposte e i commenti degli intervistati sono stati poi utilizzati per individuare una serie di principi di ragione pratica imprenditoriale e manageriale.
Leggendo il libro, agile e scorrevole, ci si accorge che più che una riflessione sul mestiere dell’imprenditore alla luce del messaggio cristiano, l’oggetto è un altro, come è scritto già nella prima riga: «Sembra esistere un problema fondamentale nei rapporti tra il Cristianesimo e la ricchezza» (pag. 3). Da qui una prima criticità: perché identificare l’imprenditore con la ricchezza? Nessun economista ha mai detto che il telos, cioè la natura profonda o l’essenza della funzione dell’imprenditore sia fare soldi. Magari la gente lo pensa, ma è impreciso. A partire dagli economisti classici, per Jevons tipico dell’imprenditore è la capacità di “anticipazione” (1870), per Schumpeter quella di “innovazione” (1908), per Knight gestire “rischio e incertezza” (1921), per Einaudi, “il bisogno di creare” (1944), per Becattini “realizzare nell’azienda un progetto di vita” (2002). Il profitto arriva come “segnale” che il progetto funziona, ed è l’effetto non lo scopo. La ricerca diretta del denaro è invece tipico dello speculatore o del rentier, figure diverse, opposte e in conflitto con l’imprenditore. Tra i brani scelti ci sono, in realtà, anche testi adatti per una riflessione sull’imprenditore (talenti, operai, amministratore…), ma porre il centro sulla ricchezza non aiuta a capire la vocazione dell’imprenditore.
Insieme a riflessioni interessanti, le analisi delle risposte ricevute fanno sorgere alcune perplessità, e una domanda generale di metodo. Nel commento della parabola degli “operai dell’ultima ora”, ad esempio, dove si narra di un’impresa agricola nella quale tutti gli operai ricevano la stessa paga a prescindere dalle ore di lavoro svolto, leggiamo: «L’imprenditore è al vertice della catena di comando e non è tenuto a discutere e giustificare tutte le proprie decisioni e valutazioni agli occhi di terzi: non è tenuto a giustificare agli altri dipendenti il motivo per cui concede qualcosa ad uno e non lo concede all’altro» (pag. 28); come se il clima aziendale e la percezione di equità, elementi essenziali per la coesione sociale di ogni organizzazione, non dipendessero dalla trasparenza, dalla discussione aperta e dalla giustificazione delle scelte fatte da imprenditori e manager, soprattutto quelle che riguardano i dipendenti e i loro salari.
Ancora più complicato è trarre conseguenze operative aziendali dalla parabola dell’“amministratore disonesto”, che una volta saputo che sarebbe stato licenziato dal padrone per farsi amici riduce l’importo dei debiti dell’azienda (pag. 60); per non parlare della “parabola dei talenti” (pagg. 145-167). In quest’ultima parabola andrebbe, tra l’altro, notato che non è ovvio associare Gesù o Dio al bizzarro e severo padrone dei talenti, non fosse altro per il riferimento che questi fa all’interesse delle banche che era vietato dalla Legge di Mosè.
Infine la domanda sul metodo. Quando si prende il Vangelo per ispirare la vita economica si dovrebbe sempre tener conto di una regola fondamentale. Gli evangelisti non usano il linguaggio economico per elaborare e poi trasmetterci un’etica economica, anche perché di etiche economiche nel Nuovo Testamento ce ne sono molte. Nei vangeli l’economia è usata solo come metafora per parlare d’altro, in genere della logica del Regno dei cieli. Occorrerebbe allora evitare di commettere un triplice errore: 1. Dimenticare che le dracme, i talenti, i denari sono usati dai vangeli come immagini per dare messaggi non-economici; 2. Interpretare poi il linguaggio economico come se Gesù stesse parlando direttamente di economia; 3. Tornare infine dalle monete metaforiche della Bibbia alle monete delle imprese e dell’economia per orientare le scelte economiche.
Quando si fa questo errore (comune) si finisce per effettuare operazioni stravaganti, come lodare, in nome del vangelo, un economo disonesto che si fa amici con le tangenti, o formulare, sulla base della conclusione della parabola dei talenti, il cosiddetto “teorema di San Matteo”, ben noto agli economisti: “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Un teorema che descrive un dato empirico che incontriamo spesso nella vita economica (chi ha più risorse tende ad accrescerle e chi parte povero finisce ancora più povero), ma che nulla ha a che fare con la logica dell’agape e della predilezione di Gesù per i poveri, cioè per coloro che “non hanno”.
Rudolf Colm e Cristian Mendoza
Gesù imprenditore.
Il paradosso del denaro
Il pozzo di Giacobbe,
pagg. 224, € 18