Le immagini dell’ennesimo episodio (del 3 aprile 2023) delle violenze di una decina di agenti di custodia su un detenuto – riprese dalle telecamere del carcere di Reggio e diffuse ieri – sconvolgono più delle immagini delle torture compiute in altre carceri finite a giudizio e a condanna.
La realtà dei processi di Santa Maria Capua Vetere, di Torino, di Ivrea, di Siena, conclusi con la condanna sia di agenti di custodia, sia di un direttore e di un sanitario – al di là delle responsabilità personali – trova purtroppo nella vicenda di Reggio Emilia una conferma drammatica.
Restano da accertare le specifiche responsabilità personali e le ragioni che possono aver spinto gli imputati a un’azione di contenimento ritenuta necessaria di fronte a un’eventuale azione aggressiva del detenuto. Tuttavia, le modalità del trattamento inflitto a quest’ultimo confermano lo stato intollerabile di crisi delle carceri italiane, accanto alla crescita dei suicidi. Uno stato cui hanno contribuito complicità, disattenzioni, ignoranza delle carenze e delle lacune macroscopiche del nostro sistema penitenziario, accompagnata da una crescita abnorme – da più di dieci anni – del numero dei detenuti.
Questo è il frutto di una politica orientata a vedere nella reclusione l’unico strumento per affrontare i «diversi» con lo stesso metro che purtroppo è inevitabile per affrontare la pericolosità di espressioni violente, o quella della criminalità organizzata, o quella di altre forme di criminalità non meno aggressive anche se non violente (ad esempio la criminalità economica).
Il trattamento descritto nel capo d’imputazione del pm e registrato dalle telecamere di servizio del carcere sconcerta per il contesto di violenza che documenta. È l’opposto dell’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». È doveroso reagire alle vessazioni cui sono sottoposti i nostri concittadini nelle carceri all’estero; ma è altrettanto doveroso reagire a quelle egualmente se non più forti e drammatiche cui sono sottoposti stranieri e italiani nelle nostre carceri. È positivo che tra le responsabilità per queste vicende di violenze si cominci a punire anche chi abbia la responsabilità di non averle impedite o di averle coperte.
Ma non basta. Occorre una presa di coscienza della politica, che prenda finalmente atto della gravità e dell’inciviltà delle nostre carceri, altrimenti la Costituzione uscirà definitivamente dagli istituti di reclusione italiani o dovrà rinunziare al tentativo di entrarvi: sia con le sentenze della Corte Costituzionale, inascoltate anche se giuste; sia attraverso il dialogo dei suoi componenti con i detenuti, ostacolato da motivazioni «burocratiche», per il timore di una loro presa di coscienza del messaggio costituzionale, e per paura che quest’ultimo li esorti a una «rivoluzione per i diritti»