Ma le vittorie dei populisti non aiutano l’America Latina
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21 Giugno 2022Il braccio di ferro atteso e pronosticato alla vigilia dell’intervento di Draghi al Senato oggi pomeriggio e alla Camera domani mattina, il primo seguito dal voto sin dall’inizio della guerra, c’è tutto ed è durissimo. Inizia nel week-end, rende incandescenti le linee telefoniche. Prosegue in mattinata a palazzo Madama e infine esplode nel lunghissimo vertice di maggioranza che inizia nel pomeriggio e prosegue per ore, presenti il ministro per i rapporti con il Parlamento D’Incà e il sottosegretario Amendola.
Però non riguarda le armi, come profetizzato: quella è una parola tabù. Si inviano, ma col dovuto pudore, senza nominarle. Tanto meno il duello riguarda il proditorio tentativo di allontanare l’Italia dalla Nato, denunciato fantasiosamente da Di Maio. Per interessi di circoscritto cortile di casa 5S più che di geopolitica globale.
LO SCONTRO È SUL RUOLO del Parlamento e sui rapporti con il governo in una fase così delicata. I 5S, ma anche LeU, chiedono che il governo si presenti in Parlamento prima di ogni decisione importante, a partire dai vertici internazionali. Il modello ipotizzato è quello dei dpcm ai tempi del Covid. In un primo momento, domenica, il mediatore Amendola era sembrato possibilista. Poi però chiude ogni spiraglio: «Impossibile: vorrebbe dire che il governo è commissariato dal Parlamento». Come si possa dire una simile enormità impunemente in una repubblica parlamentare sfugge ma tant’è. Pare che a sollevare il problema del «commissariamento parlamentare» sia stato Draghi in persona.
LA CONTROPROPOSTA del governo prevede sempre il passaggio parlamentare, però dopo e non prima di assumere decisioni concordate con gli alleati. Semplici informative con le quali il governo, bontà sua, informa il Parlamento di cosa è stato deciso. Stavolta sono i 5S a impuntarsi soprattutto al Senato, dove i contiani sono più forti. Anche perché a palazzo Madama una mozione che propone di sospendere l’invio delle armi quasi certamente ci sarà, proposta dal gruppo Cal formatosi in maggio e che comprende soprattutto ex senatori 5S. I contiani devono dunque poter contare su un testo condiviso accettabile o proporne uno loro.
Dagli spalti della Lega Salvini getta acqua sul fuoco, assicura che il governo non cadrà, auspica che la risoluzione parli «più di pace che di guerra». Fioccano voci secondo cui il Carroccio farebbe blocco con il resto della maggioranza contro la richiesta 5s-LeU, con il Pd a gestire i tentativi di mediazione. Dal ring, pardon dal vertice di maggioranza, i leghisti imbufaliti smentiscono.
SUGLI ALTRI PUNTI DELLA risoluzione tutto fila liscio: richiesta di rivedere Maastricht, debito condiviso per fronteggiare la crisi, Price Cap sul gas, sostegno all’ingresso dell’Ucraina nella Ue ma secondo le regole di Copenaghen, cioè senza forzare troppo i tempi. Nessuno ci trova niente da ridire. Poi ci sono le iniziative di pace, che verranno ampiamente citate con «de-escalation» come parola resa magica dal fatto che può voler dire tutto ma può anche non voler dire niente.
Così si torna al punto di partenza, al nodo che non si riesce a sciogliere: la richiesta del Parlamento di avere voce in capitolo sulle scelte, nuove forniture d’armi incluse. L’enormità che ai governanti suona come intollerabile «commissariamento».
LA GUERRA NEL M5S RENDE tutto più difficile: senza il colpo basso di Di Maio, Conte sarebbe forse stato più malleabile. Dopo quell’affondo deve fare l’impossibile per impedire una formula che permetta al ministro degli Esteri di cantare vittoria e rivendicare il merito di aver bloccato la deriva anti-atlantista. Allo stesso modo le divisioni nel Movimento spingono l’ala più dura del governo a tenere duro con l’obiettivo di piegare una volta per tutte l’opposizione interna.
DOPO ORE DI BRACCIO DI FERRO e di proposte di mediazione, che sbocciano una dopo l’altra e altrettanto rapidamente appassiscono, spunta l’ipotesi di anticipare le comunicazioni del governo prima di vertici e scelte importanti, ma solo previo esplicito riferimento al rispetto del decreto che consente al governo di mandare quali e quante armi vuole senza passare per il Parlamento sino al 31 dicembre. A insistere e ingaggiare direttamente la prova di forza con i suoi ormai quasi ex compagni di movimento è proprio Di Maio, schierato sulla linea di governo più rigida. Così la giostra riparte. Ottimista, il capogruppo leghista Romeo prevede di chiudere in nottata. Non è escluso che invece la trattativa debba riprendere stamattina.