NEWS
22 Marzo 2024Rien à y voir
23 Marzo 2024Kepel e gli «Olocausti»: «Tema che divide tutti e toglie sostegno a Israele, percepito come ostile»
L’intervista
di Lorenzo Cremonesi
Il politologo anticipa il suo saggio: Netanyahu sbaglia
«Olocausti per dire che il termine è stato ancora una volta strumentalizzato, stravolto. I palestinesi e i loro sostenitori lo utilizzano per descrivere i massacri di decine di migliaia di civili a Gaza. Netanyahu e il suo governo lo richiamano per stigmatizzare l’orrore della mattanza degli ebrei il sette ottobre. Ma adesso il paradigma dell’Olocausto viene rilanciato per affossare i valori morali universali, che dal 1945 si fondavano sul “mai più” di fronte all’abisso di Auschwitz quale base dell’ordine mondiale post-nazista, e invece alimenta le ragioni della nuova lotta del sud globale contro il nord coloniale e suprematista bianco». Così Gilles Kepel spiega il titolo, senza dubbio provocatorio, del suo ultimo libro, «Olocausti», appena pubblicato in Francia e che presto arriverà in Italia per Feltrinelli.
Si rende conto che susciterà un vespaio…
«Non sono io a strumentalizzare l’Olocausto. Da tempo ormai gli israeliani accusano di nazismo ogni avversario arabo che nulla ha in comune con quel fenomeno storico, Netanyahu continua a nominarlo. Anche in campo palestinese abbondano i paralleli fuori luogo tra le proprie sofferenze e quelle degli ebrei otto decadi fa. Ma io mi salvo con il titolo al plurale: Olocausti».
Può spiegare?
«Da essere uno dei pochi punti di intesa e di valori condivisi tra nord e sud globale, oggi l’Olocausto è tornato ad alimentare lo scontro internazionale. Il sette ottobre rappresenta uno spartiacque. Il tradizionale “terzo mondo”, che adesso si riassume nella formula del Brics allargato a Cina, tutta l’Africa, Iran, America del Sud e Russia, proclama che l’Olocausto tradizionale è superato, obsoleto, non ispira messaggi universali, non interessa più. Così, il Sud Africa raccoglie ampi consensi quando chiede al Tribunale internazionale dell’Aia di condannare Israele per genocidio. Il messaggio è chiaro: il mondo cambia, la storia va avanti, ci sono nuove sofferenze, sempre nuovi massacri e quello di Gaza sta diventando il nuovo paradigma degli oppressi dai successori dei vecchi colonialisti. L’estrema sinistra, che fa perno sulle università occidentali da Harvard, a Oxford, gli atenei italiani come Torino e Bologna o Scienze politiche a Parigi, funge da cassa di risonanza a questo modo di pensare che sta diventando ideologia».
Però?
«Però ci sono contraddizioni profonde, addirittura laceranti: il sud globale concorda sulla condanna ai massacri di Gaza, la vecchia retorica anticoloniale fa da collante, ma resta molto diviso al suo interno. Basti ricordare lo scontro geopolitico tra Cina e India, il braccio di ferro tra Egitto ed Etiopia per il controllo del Nilo, la condizione di vassallaggio della Russia nei confronti della Cina anche rispetto alla guerra in Ucraina, la frizione perenne tra Iran e Arabia Saudita».
Questa narrativa della divisione interna vale anche per il campo del nord globale?
«Ovviamente. Basti osservare le differenze tra Ue e Stati Uniti sulla questione del sostegno ad Israele, e tra gli stessi partner europei, oppure nei confronti della Cina».
La contrapposizione
Bibi ha sottovalutato il pericolo di far crescere Hamas e rifiuta la formula dei due Stati
Zelensky è un alleato da aiutare e Netanyahu invece un nemico, o comunque rappresenta un problema grave per le democrazie occidentali?
«Prima e subito dopo il 7 ottobre Israele era considerato parte del nord globale. Però, poi con l’affievolirsi della memoria del massacro degli ebrei e invece di fronte al permanere del dramma di Gaza affiancato ai continui attacchi dei coloni ebrei contro i palestinesi in Cisgiordania, Israele è ormai percepito come un attore problematico, se non ostile. Netanyahu ha sbagliato nel permettere la crescita di Hamas contro l’Autorità palestinese di Abu Mazen, ha sottovalutato il pericolo e oggi rifiuta la formula di pace dei due Stati, necessita della guerra come dell’ossigeno per sopravvivere politicamente».
Finita Gaza, Netanyahu attaccherà il Libano?
«Non ho dubbi. E potrebbe avere vita facile. Nessun in Libano piangerà per la fine di Hezbollah, che gran parte della popolazione, inclusa la maggioranza sciita, vede come il maggior responsabile della crisi economica e politica interna».
E Hamas?
«Netanyahu è stato vittima del piano diabolico del suo leader, quello stesso Yahya Sinwar che venne liberato dal carcere israeliano nello scambio di prigionieri del 2011 e subito si fiondò a Teheran per allearsi a Qassam Soleimani, il signore della guerra iraniano assassinato dagli americani poco dopo. Sinwar è un intellettuale prestato alla guerriglia: scaltro, intelligente, conosce gli israeliani come le sue tasche, parla un arabo classico da manuale che gli dà carisma e potenza tra i giovani privi di tutto a Gaza e sulle masse del Medio Oriente».
La via d’uscita?
«Lavorare sulle divisioni e contraddizioni interne ai due campi: il pragmatismo della ragione contro l’ideologia degli Olocausti».